testo di Ivan Masciovecchio.
“Laggiù soffia! Laggiù soffia! La gobba come una montagna di neve! È Moby Dick!”. Contrariamente al vecchio capitano Achab del celebre romanzo di Herman Melville, ossessionato dalla ricerca della grande balena bianca che lo mutilò di una gamba, Ettore Verì e Cesare Annecchini – amici pescatori di contrada Vallevò di Rocca S. Giovanni – non avrebbero mai immaginato di ritrovarsi un giorno al cospetto di una creatura degli abissi arrivata sulla Costa dei Trabocchi chissà da dove.
Scomparso nel 2000 papà Ettore e con l’amico Cesare affaticato dal peso dei suoi quasi novant’anni, a narrarci il moto ondoso di ciò che successe la mattina del 16 agosto 1960 è Rinaldo Verì, figlio di Ettore, che all’epoca dei fatti non era ancora nato, ma che è letteralmente cresciuto a pane e balena, come ci confida lui stesso, grazie a quella storia che il padre non ha mai smesso di raccontare, arricchendola ogni volta di nuovi particolari. Non c’era neanche il trabocco di Punta Tufano, ricostruito solo nel 1962 dopo essere stato danneggiato negli anni precedenti da una violenta mareggiata. «In quel periodo la scogliera era libera da qualsiasi altra struttura. C’era solo una sorta di porticciolo naturale per il rimessaggio di barchette e qualche zattera di canne».
Quella mattina di agosto le condizioni climatiche si presentavano ideali per una battuta di pesca. Mare calmo, sole alto nel cielo, assenza di vento. Armati degli attrezzi del mestiere, i due amici puntarono la prua della Fortunello verso il mare aperto, senza allontanarsi troppo dalla costa. «Giunti nel posto scelto per calare le reti – prosegue Rinaldo – sul fondo del mare videro come una grande macchia scura, un’ombra che si faceva sempre più nitida. Pensarono subito ad un branco di pesci più numeroso del solito ma purtroppo per loro, giunta in superficie, tra spruzzi ed onde, la sagoma si rivelò essere una balenottera di quasi venti metri di lunghezza per oltre settanta quintali di peso!».
Spaventati a morte dai ripetuti colpi di coda di quello che ai loro occhi si presentava come una sorta di mostro marino mai visto prima, ma allo stesso tempo affascinati da quell’autentico spettacolo della natura, Ettore e Cesare si diedero con vigore alla fuga verso l’approdo di Punta Tufano. La balena, forse disorientata o infastidita da quella presenza umana, anziché prendere il largo prese a seguirli verso riva. «Così facendo andò incontro al suo inesorabile destino, restando inevitabilmente incastrata tra gli scogli. Provò a girarsi per uscire verso nord ma le acque erano davvero troppo basse. Impaurita, continuava a battere violentemente la sua enorme coda sulla scogliera e sulle barchette ancorate lì vicino, morendo così dissanguata a causa delle numerose ferite riportate. Nell’arco di pochissimo tempo tutta la contrada si riversò a mare per assistere a quella che sembrava la scena di un film. Mio padre mi disse che un macchinista fermò addirittura un treno sulla linea Adriatica, ma su questo non ci giurerei…».
Durante i quattro giorni che la carcassa della balena restò lì tra gli scogli, migliaia di persone arrivarono a curiosare da tutta l’Italia. Grazie al lavoro di giornali, radio e televisioni, la notizia valicò anche i confini nazionali e addirittura continentali, raggiungendo i parenti dei Verì sparsi tra la Germania e l’America. Immerso in un biblico mare color rosso sangue, gonfio e fetido a causa della prolungata esposizione al sole e al contatto con l’acqua, non senza fatica l’enorme cetaceo fu così disincagliato e trasportato al largo di Vasto. «Prima fu ancorato sul fondo del mare – afferma Rinaldo – ma dopo un po’ di tempo si decise di seppellirlo definitivamente a terra in quanto i pesci che si cibavano della sua carne diventavano quasi immangiabili. La fossa fu scavata all’interno dell’attuale Riserva naturale di Punta Aderci, indicativamente in una zona valliva proprio dietro la spiaggetta di Punta Aderci, a nord del promontorio».
Nel 2010, in occasione dei 50 anni dall’evento, fu lanciata l’idea di una campagna di scavi per recuperarne lo scheletro in modo da renderlo visibile al pubblico, magari utilizzando una struttura già esistente come il Centro di Documentazione Ambientale di contrada Vallevò oppure presso un costituendo Museo della Balena. «A tal proposito – conclude Rinaldo – abbiamo stretto contatti con il direttore del Museo del Mare di Pescara, insieme ad un altro ricercatore del CNR, anche se sappiamo bene che le difficoltà sono molte, soprattutto ora che il territorio in questione è sotto il vincolo della riserva naturale. Ma non disperiamo». Nel frattempo i visitatori che quotidianamente affrontano i tornanti della statale 16 per perdersi nell’incanto della Costa dei Trabocchi, giunti in contrada Vallevò, potranno continuare comunque ad immergersi nel racconto di quel giorno di agosto di cinquantasette anni fa, quando proprio lì, tra gli scogli davanti ai loro occhi, il destino di una balenottera comune amaramente si compì.