testo di Ivan Masciovecchio.
Correva l’anno 2000 quando Slow Food decise di lanciare il progetto dei Presìdi, incoraggiando diversi agricoltori ed allevatori italiani – si partì con 100 prodotti da salvare, oggi se ne contano più di 300 con migliaia di produttori coinvolti –, custodi di biodiversità e territori bellissimi quanto fragili, a mettersi insieme per tutelare al meglio i loro prodotti frutto di lavorazioni storiche e tradizionali, regolamentandone in qualche modo l’attività e facendo conoscere la propria storia antica fatta di sapori e saperi artigiani da preservare e valorizzare.

Nell’ambito del ricco palinsesto di eventi allestito per Terra Madre Salone del Gusto 2020 – in svolgimento fino al prossimo aprile 2021 con appuntamenti da godere sia in presenza, sia da casa collegandosi via web attraverso i canali social della manifestazione – per festeggiare i 20 anni del progetto, domenica 18 ottobre – Covid permettendo – si svolgerà la prima edizione di Presìdi Aperti, con centinaia di produttori che apriranno le porte delle proprie aziende, delle case, delle fattorie e dei laboratori di trasformazione per accogliere e condividere con i consumatori una parte della loro quotidianità. Un importante momento di riflessione inserito all’interno della Green Week europea, durante la quale tutti i paesi dell’Unione celebreranno la biodiversità, confrontandosi sulle strategie da attuare nei prossimi anni per salvare il pianeta.

Tra una visita ai coltivatori della patata turchesa, ai produttori dei mieli dell’Appennino Aquilano o dell’olio extravergine italiano (leggi QUI la lista regionale dei Presìdi Aperti), in Abruzzo si potrà andare anche alla scoperta dei pregiati fagioli di Paganica, con il giovane Matteo Griguoli che accoglierà i visitatori nella propria azienda di Paganica, coinvolgendoli nelle diverse fasi della lavorazione. Seminati in primavera inoltrata, è in autunno, infatti, prima del grande freddo, che questi preziosi frutti della terra vengono finalmente raccolti. Un ciclo vitale molto lungo che negli ultimi anni, a causa dell’evolversi anomalo delle stagioni, sta portando ad una maturazione della pianta sempre più tardiva, prolungando non di rado fino al giorno dell’Immacolata Concezione ed oltre le attività sull’aia legate alla trebbiatura.

Coltivazione storica delle frazioni disseminate nella zona est del capoluogo aquilano, sulla rive gauche del fiume Aterno, vale a dire Bazzano, Tempera, Onna e S. Gregorio, oltre naturalmente a Paganica, fino agli anni ‘60-‘70 la produzione poteva arrivare anche a diverse tonnellate, destinate in parte ad insaporire i pasti nelle mense dell’Esercito Italiano e delle Acciaierie di Terni. Un’urbanizzazione indiscriminata del territorio, con un nucleo industriale insediato sugli appezzamenti più fertili, sebbene largamente inutilizzato, aggiunta soprattutto ad una lavorazione particolarmente faticosa, nel tempo hanno portato ad una drastica riduzione della produzione e ad un lento e progressivo abbandono dei campi. Il terremoto del 2009 ha poi fatto il resto. Se oggi si torna a parlare a livello nazionale del prelibato legume aquilano lo si deve all’impegno di cinque giovani coltivatori (oltre al già citato Griguoli, ci sono Antonello Angelini, Giuseppe Moro, Antonio Tennina, tutti di Paganica, ed Emanuele Falerni, l’unico di San Gregorio) che, grazie anche al coinvolgimento delle associazioni di categoria e di Slow Food, hanno deciso di tornare in qualche modo alle origini, scommettendo sulla terra e sul proprio futuro.

Introducendo la sua realtà aziendale, è lo stesso Matteo a raccontarci le principali fasi della lavorazione. «Attualmente in totale coltiviamo un fazzoletto di terra di circa un ettaro. L’annata è stata discreta, ma non so dirti a quanto ammonterà il raccolto. Normalmente non arriviamo a più di 17-20 quintali. Dopo averli colti dal campo ormai secchi, estirpando con le mani le piante rampicanti sostenute da tutori di legno, vengono fatti asciugare distesi su un telone. Quelli non ancora maturi li vendiamo freschi da sgrano, gli altri vengono battuti ripetutamente con il forcone in modo che vengano espulsi dal baccello».
Operazione durissima questa, che un tempo nelle aziende veniva svolta anche da 7-8 persone contemporaneamente e che ora, invece, sono in pochi a compiere. Come accade per altri produttori, a supportare Matteo nella lavorazione, intanto, provvede tutta la famiglia, da nonna Loreta a papà, mamma, fratelli e parenti vari, interscambiabili nei ruoli e pronti ad intervenire per ogni evenienza. «Dopo la battitura, anche grazie al vento, si separa il grosso della paglia dai fagioli. Le stoppie che restano vengono passate al setaccio per arrivare così ad una pulitura completa. Successivamente i semi vengono fatti asciugare ancora un paio di giorni, all’aperto sotto al sole oppure anche in casa al fuoco del camino. Selezionati infine manualmente uno ad uno, eliminando quelli che presentano delle impurità o un colore non idoneo per il commercio, saranno poi avviati al confezionamento, etichettati e messi in vendita».

Sorrette da quattro pali intrecciati a capanna ed irrigate in gran quantità tramite un sistema di canalizzazione risalente all’epoca dei romani capace di convogliare – pur tra mille dispersioni – le acque del fiume Vera dalla sorgente ai campi posti a valle, sono due le tipologie di fagioli prodotti a Paganica: quelli bianchi (o a pisello) e quelli ad olio (o a pane), di colore più rosaceo, avana tendente al beige. Questi ultimi, più saporiti, sono ideali per zuppe e minestre. Caratteristica comune dei due ecotipi è la buccia estremamente sottile data dal terreno calcareo. «Uno studio ha dimostrato che entrambe le varietà hanno il 50% di fibra in più rispetto ad altre tipologie come i borlotti e i cannellini, oltre a molti grassi polinsaturi, tanto che in futuro vorremmo puntare sul concetto di fagioli dietetici».
Dopo l’istituzione del Presidio Slow Food le richieste e le conseguenti vendite si sono moltiplicate. Oltre al mercato abruzzese, gran parte della produzione esce fuori dai confini regionali prendendo la strada del Nord Italia (province di Torino e Milano su tutte), ma anche verso la Capitale, se non addirittura all’estero, dove è più facile ottenere un giusto prezzo per il prodotto. «Anche se – chiosa Matteo – vista la fatica che ci vuole nella lavorazione, dovremmo venderli almeno a 60 euro al chilo…». Come dargli torto.