testo e foto di Ivan Masciovecchio.
Seminati in primavera inoltrata, è in autunno, prima del grande freddo, che i fagioli di Paganica vengono finalmente raccolti. Un ciclo vitale molto lungo che negli ultimi anni, a causa dell’evolversi anomalo delle stagioni, sta portando ad una maturazione della pianta sempre più tardiva. Coltivazione storica delle frazioni disseminate nell’area ad est del capoluogo aquilano e sulla rive gauche del fiume Aterno, vale a dire Bazzano, Tempera, Onna e S. Gregorio, oltre naturalmente a Paganica, fino agli anni 60-70 la produzione poteva arrivare anche a diverse tonnellate, destinate in parte ad insaporire i pasti nelle mense dell’Esercito Italiano e delle Acciaierie di Terni.

Un’urbanizzazione indiscriminata del territorio, con un nucleo industriale insediato sugli appezzamenti più fertili, sebbene largamente inutilizzato, aggiunta soprattutto ad una lavorazione particolarmente faticosa, nel tempo hanno portato all’azzeramento della produzione e ad un lento e progressivo abbandono dei campi. Il terremoto del 2009 ha poi fatto il resto. Se oggi si torna a parlare a livello nazionale del prezioso legume aquilano lo si deve all’impegno di cinque giovani coltivatori che, grazie anche al coinvolgimento delle associazioni di categoria e di Slow Food che lo ha inserito nell’elenco dei Presìdi da salvaguardare dall’estinzione, hanno deciso di tornare in qualche modo alle origini, scommettendo sulla terra e sul proprio futuro.

Matteo Griguoli, agricoltore di Paganica, è il responsabile di questa piccola compagnia di sognatori composta da Antonello Angelini, Giuseppe Moro, Antonio Tennina ed Emanuele Falerni, l’unico di San Gregorio. Lo incontriamo nella sua azienda situata poco fuori dal centro abitato. «Attualmente in totale coltiviamo un fazzoletto di terra di circa un ettaro, producendo non più di 17/20 quintali di fagioli. Dopo averli colti dal campo ormai secchi, estirpandoli con le mani, vengono fatti asciugare distesi su un telone. Quelli non ancora maturi li vendiamo freschi da sgrano, gli altri vengono battuti ripetutamente con il forcone in modo che vengano espulsi dal baccello».

Operazione durissima questa, che un tempo nelle aziende veniva svolta anche da 7-8 persone contemporaneamente e che ora, invece, sono in pochi a compiere «Noi piccoli produttori stiamo valutando l’acquisto di una macchina trebbiatrice che ci consentirebbe di svolgere questa operazione in poche ore, ma i costi sono proibitivi e senza un sostegno non potremmo mai farcela».

A supportare Matteo nella lavorazione, intanto, provvedono nonna Loreta, mamma Adele e zia Viviana, interscambiabili nei ruoli e pronte ad intervenire per ogni evenienza. «Dopo la battitura, anche grazie al vento, si separa il grosso della paglia dai fagioli. Le stoppie che restano vengono passate al setaccio per arrivare così ad una pulitura completa.
Successivamente i semi vengono fatti asciugare ancora un paio di giorni, all’aperto sotto al sole oppure anche in casa al fuoco del camino. Selezionati infine uno ad uno, eliminando quelli che presentano delle impurità o un colore non idoneo per il commercio, saranno poi avviati al confezionamento, etichettati e messi in vendita».

Sorrette da quattro pali intrecciati a capanna ed irrigate in gran quantità tramite un sistema di canalizzazione risalente all’epoca dei romani capace di convogliare – pur tra mille dispersioni – le acque del fiume Vera dalla sorgente ai campi a valle, sono due le tipologie di fagioli prodotti a Paganica: quelli bianchi e quelli ad olio (o a pane), di colore più rosaceo tendente al beige. Questi ultimi, più saporiti, sono ideali per zuppe e minestre. Caratteristica comune è la buccia estremamente sottile data dal terreno calcareo. «Uno studio ha dimostrato che entrambe le varietà hanno inoltre il 50% di fibra in più rispetto ad altre tipologie come i borlotti e i cannellini, oltre a molti grassi polinsaturi, tanto che in futuro vorremmo puntare sul concetto di fagioli dietetici».

Dopo l’istituzione del Presidio Slow Food le richieste e le conseguenti vendite sono praticamente triplicate. Presenti per la prima volta a Torino lo scorso mese di settembre nell’ambito del Salone del Gusto (leggi qui per saperne di più), i 60 chili a disposizione sono andati esauriti nel giro di poche ore. La quasi totalità della produzione esce fuori dai confini regionali prendendo la strada del Nord Italia o addirittura dell’estero, dove è più facile ottenere un giusto prezzo per il prodotto. «Anche se – chiosa Matteo – vista la fatica che ci vuole nella lavorazione, dovremmo venderli almeno a 60 euro al chilo…». Come dargli torto.
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