Metti un ricordo d’Oriente in un angolo di Occidente. Accade nella frazione di Villa Badessa di Rosciano, tra i morbidi pendii delle colline pescaresi, dove da quasi trecento anni vive una comunità di origine greco-albanese. Con peculiarità culturali, religiose e linguistiche
di Luana Cicchella, foto Luciano D’Angelo
L’agglomerato urbano è diviso in due zone. Nella parte alta si trova il centro abitato, mentre a valle s’incontra un bell’angolo di natura, con il corso del fiume Nora tra la selvatica vegetazione di felci, sambuchi e salici. Come hanno rivelato una serie di ricerche archeologiche, alcuni gruppi umani si stanziarono in questa fertile terra già a partire dal Neolitico. Tra i reperti rinvenuti vi sono pezzi di ceramica con decorazioni “impresse”, del tipo della cosiddetta “cultura di Catignano”, risalenti a 6000/5000 anni fa.
Villa Badessa, nota anche come Oasi orientale d’Abruzzo, è oggi una frazione del paese di Rosciano (Pe). Qui da quasi trecento anni vive una comunità allogena, in perfetto equilibrio e sintonia con le collettività autoctone dei paesi limitrofi. La popolazione è composta da genti di origine greco-albanese, discendenti da un popolo proveniente dall’Epiro, storica regione tra il sud dell’Albania ed il nord della Grecia. In fuga dalla Penisola Balcanica, questi gruppi di epiroti, si stanziarono in diverse località dell’Italia meridionale tra il XV ed il XVIII secolo. La comunità di Villa Badessa, detta arbëreschë, cioè albanesi italiani, s’insediò in Abruzzo nel corso del Settecento. La terra venne donata loro da Carlo III di Borbone, probabilmente per volere di sua madre, la duchessa Elisabetta Farnese.
Custode orgogliosa e fiera delle proprie origini, questa comunità le esprime attraverso peculiarità culturali, religiose e linguistiche. Quello albanese è un popolo straordinariamente eterogeneo, costruttivo esempio di una possibile convivenza tra il temperamento orientalistico e l’occidentalismo dello spazio Adriatico, in cui si sommano terra d’origine e stanziamento attuale.
L’identità greco-albanese ed i caratteri distintivi di questo popolo si svelano nella lingua, nei costumi e nei rituali. Gli antichi racconti popolari, gli abiti, le feste tipiche e le loro vicende storiche presentano le luminose cromie della cultura greco-bizantina. Purtroppo oggi le tradizioni ed il folclore di questa minoranza etnica, risultano sempre più circoscritti a momenti ed ambiti specifici, spesso ridotti a semplice repertorio documentario. La loro essenza orientale è solidamente integrata al predominante occidentalismo del territorio nel quale vivono oramai da tre secoli.
Il bilinguismo, che per molti anni ha caratterizzato questa popolazione, sta purtroppo cedendo all’endemica predominanza della lingua italiana. La parlata arbëreschë è ancora usata e conosciuta quasi esclusivamente dalle persone di età avanzata. Questa lingua a rischio di estinzione, necessita pertanto di un’accurata opera di tutela e valorizzazione.
Meno a rischio del patrimonio linguistico sono le usanze religiose, custodite e valorizzate con cura dalla Chiesa Orientale a cui appartiene la parrocchia, dipendente dall’Eparchia di Lungro (Cosenza).
Al centro dell’abitato si trova la graziosa chiesetta, dedicata alla Kimisi tis Theotokou (Dormizione della Madre di Dio o anche Santa Maria Assunta). In questo luogo di culto è possibile scoprire ed ammirare le consuetudini del rito cattolico orientale. Le aggregazioni cristiane d’Oriente da sempre preservano e tramandano alcune tra le più antiche usanze del rituale cristiano. I gesti, le fasi liturgiche e l’andamento del rito corrispondono infatti, a quelli usati nei paesi del vicino Oriente, nei luoghi primordiali della fede cristiana. Nel rito greco-bizantino si perpetuano formule paleocristiane, codificate agli usi e costumi della cultura bizantina, nel corso dell’opera di esaltazione della cristianità. “Poiché crediamo che la venerabile e antica tradizione delle Chiese orientali sia parte integrante del patrimonio della Chiesa di Cristo, la prima necessità per i cattolici è di conoscerla per potersene nutrire”, così scriveva nel 1995 Papa Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Orientale lumen (tratto da E. Morini, La chiesa ortodossa: storia, disciplina, culto Bologna 1996, p.7).
Questo piccolo edificio, con tutto il suo apparato culturale e sociale, rappresenta uno tra i più preziosi tesori della nostra regione. La chiesa, realizzata nella seconda metà del Settecento, ha una struttura esterna semplice ed austera. Il candore dell’intonacatura, la trifora della facciata, le piccole croci tra gli spazi delle finestrelle laterali ed il pronao semicircolare, che sospende il passaggio del fedele dal mondo materiale esterno all’ambiente sacro interno, sono tutti elementi tipici dell’architettura religiosa di area balcanica e greca. All’interno si osserva una distribuzione dell’arredo, funzionale e strettamente correlata alle diverse fasi del rito. Appena dentro l’aula la cosa che immediatamente colpisce è il paravento che chiude la visuale della zona terminale. Questo apparato, detto iconostasi, insieme alle numerose icone portatili appese alle pareti, rappresentano due caratteristiche tipiche delle chiese orientali. L’arte in queste comunità non ha solo un valore estetico e funzionale, ma è pregna di sacralità nella sua essenza edificante. Il valore intrinseco delle raffigurazioni sacre è uno degli aspetti che più di tutti richiama l’intimo legame della ritualità greco-bizantina con quella delle origini.
Per Gregorio Nazianzieno, Padre della Chiesa vissuto nel IV secolo, l’iconostasi rappresenta la divisione, allo stesso tempo reale ed immaginaria ma non indissolubile, tra cielo e terra. Per questo al di qua della parete si trova lo spazio dei fedeli ed al di là quello riservato al parroco, nella zona più sacra dell’edificio. L’iconostasi di Villa Badessa presenta tre aperture ad arco, chiuse da tendaggi purpurei. Negli spazi di risulta, tra le tre arcate ed il coronamento, si trovano ordinatamente distribuite, una serie di immagini con soggetti tipici dell’iconografia sacra bizantina: il Cristo Pantocratore, la Vergine Odighitria, il San Giovanni Battista, i dodici Apostoli e la Deesis.
Le brillantissime icone disposte sulle mura si mostrano in tutta la loro cadenzata ripetitività iconografica. L’apparente monotonia figurale di queste opere non è casuale, ma legata ad una storia di rigide regole arcaiche, connesse alla sacralità stessa dell’immagine. Quella delle icone è un tipo di produzione che prese avvio sin dai primissimi secoli del cristianesimo. Una larga diffusione si registrò soprattutto dopo il periodo dell’Iconoclastia. Parliamo di un momento storico particolarmente difficile per la religione cristiana, che in quel frangente si vide costretta a cercare ragioni profonde per giustificare l’uso delle immagini nella pratica cultuale. Tra l’VIII ed il IX secolo il movimento iconoclasta avviò una propaganda per la distruzione delle immagini religiose, ritenute corruttrici del cristianesimo perché devianti verso l’idolatria, tipica invece del paganesimo. La disputa, nata da ragioni di carattere teologico, diede origine ad una lunga serie di dibattiti sulla funzione delle immagini sacre nella religione cristiana. Gli iconoduli, cioè i difensori delle immagini, arginarono gli attacchi degli apologisti contro l’arte sacra usando molte interessanti argomentazioni. A giustificare l’esistenza e la produzione delle icone stava in primis la loro stessa natura di “ritratto sacro per eccellenza”. L’icona rappresenta da sempre per i cristiani l’immutabile effige dell’archetipo. Dietro questa ragione si cela la sua ripetitività iconografica. L’immagine non può cambiare perché è quella del primo ritratto o della prima acheiropoietòs (immagine miracolosa, “non fatta da mano umana”). L’icona, ritratto primario, coadiuva la traduzione del tunc et illic (in quel tempo lì) nell’hic et nunc (qui ed ora). In esse, così come nelle fasi liturgiche, si reiterano senza soluzione di continuità, i segni della presenza divina. In questa produzione la bellezza ed il preziosismo della materia si fondono con la profonda sacralità del soggetto rappresentato. Le numerose icone della chiesa Kimisi tis Theotokou a Villa Badessa, raccontano parte di questa storia. Esse formano certo un’interessantissima collezione artistica, ma rappresentano soprattutto un patrimonio d’inestimabile valore religioso. Nella “piccola città dell’abbadessa”, sul lato destro del piazzale antistante la chiesa, si trova un altro importante simbolo di questa comunità: il monumento dedicato all’eroe Giorgio Kastriota Scanderberg. Parlando di lui in uno dei suoi Dialoghi T. Tasso scrisse “…troverete nei Castrioti la nobiltà dei principi d’Albania, e particolarmente del grande Alessandro che fu l’ultimo lume del nome greco, e l’ultimo riparo ch’avesse quella provincia contra l’arme turchese”.
Memoria ed amore della propria identità culturale sono ragioni di vita per la popolazione arbëreschë. Comunità “… pervasa dalla singolare spiritualità cristiana di rito orientale, … che ne mette in più netto rilievo, sublimandole in visioni di avvincente magia poetica, le caratteristiche etniche … Non si fossilizzarono gli albanesi d’Italia nel cerchio di anacronistiche usanze ma, lasciando che la loro vita s’impregnasse di luce in seno alla civiltà italiana, conservarono intatta nel sangue l’essenza più pura della loro etnicità” (da Miscellanea di Albanistica, Istituto di Studi di Albanesi, Roma 1997, pp. 19-23).