di padre Giacinto Marinangeli
Il convento-santuario di Sant’Angelo d’Ocre sorge sul confine dei comuni di Ocre e Fossa, innestato, con gran tecnica, sui rocciosi cunei d’un immenso masso che sorge dalle viscere della terra come la simbolica “petra generatrix” del culto mitraico. Nel corso del secolo terzo esso veniva praticato nel vicino “speleum” dedicato a Mitra-Sol Invictus, sulle pendici di Monte d’Ocre, dominato dal possente castello dei Signori d’Ocre, donde fu gettato a martirio il Levita Massimo di Aveia, quale offerta sacrificale e propiziatoria al dio Mitra. La nascita dell’edificio monastico affonda nel buio dei secoli e nella sua storia si possono distinguere quattro fasi: la prima, dal sorgere (forse secolo VIII o IX) al 1191; la seconda dal 1191-1221 al 1539; la terza, dal 1409 al 1479; la quarta, da questa data a i giorni nostri. Della prima fase ben poco si conosce; così anche della seconda, che vede il piccolo monastero affidato a un prete diocesano; la breve terza fase è discretamente conosciuta attraverso documentazione archivistica. La quarta, infine, è abbastanza illustrata dalla varia documentazione conservata, ancora in parte, nell’archivio conventuale e comunale di Ocre. Sant’Angelo fu dipendenza e proprietà del grande monastero di San Salvatore Maggiore di Concerviano, nella Diocesi di Rieti, collegato con l’imperiale monastero di Santa Maria di Farfa, col quale divideva relazioni di varia natura, anche patrimoniale e fondiaria, come dimostrano, fra l’altro, carte di “concambium” di appezzamenti di terreno, proprio nella zona di nostro interesse. Si trattava di un sistema agrario seguito nell’accorpare fondi per la migliore gestione e sfruttamento della terra. Fin dal sorgere il convento fu dedicato all’Arcangelo San Michele (nella toponomastica locale detto “Sant’Angelo”), per il culto che si ebbe nel Medioevo per questo Arcangelo. Forse esso vi fu introdotto in queste terre in tempi antichissimi, prescristiani, in considerazione di altrettanto antichissime relazioni che intercorrevano fra la contrada aveiate vestina (quella di Fossa e Ocre) e l’Apulia sipontina. Testimonianze in questo senso giungono sia dalla “transumanza”, sia dalla storia religiosa, in particolare relativamente alla martire Santa Giusta e al martire Sant’Eusanio (martirizzati proprio in Aveia), la cui vicenda si richiama precisamente all’Apulia sipontina e all’antro sacro del Gargano. Oppure la dedicazione al culto di San Michele fu opera degli stessi monaci salvatoriani, che, unitamente ai Farfensi, lo avevano diffuso dall’antro del Tancia, facendolo risalire, almeno nella tradizione popolare, al Papa Silvestro I, a sua volta legato alla conversione di Costantino il Grande, il quale, dopo aver abbracciato il cristianesimo, sostituì proprio col culto di San Michele quello praticato da pagano verso la divinità Mitra-Sol Invictus. E al riguardo potrebbe essere di qualche significato, almeno indiziario, l’esistenza di uno “speleum”, antro sacro dedicato a questa divinità pagana, quasi dirimpettaio al masso gigante su cui fu costruito originariamente il piccolo monastero benedettino di Sant’Angelo. Questo antichissimo luogo benedettino nel 1480 passò ai Frati Minori dell’Osservanza, che vi hanno fatto dimora fino ad oggi ininterrottamente. Il Beato Bernardino da Fossa ci ha lasciato memoria, sobria ma briosa, della storia della “presa” di dimora da parte della prima comunità francescana, nel 1481. Descrive le varie fasi dell’operazione: dalla promulgazione del “Motu Proprio” di Sisto IV alla strutturazione del piccolo vecchio edificio benedettino femminile, adattandolo a convento francescano dell’Osservanza. Egli stesso era stato l’artefice del passaggio del monastero, grazie alla personale conoscenza del Pontefice Sisto IV, già Ministro Generale. Artefice dell’ adattamento dell’edificio antico alle nuove esigenze dovette essere, con ogni verisimiglianza, Frate Francesco di Paolo, uno dei primi otto religiosi destinati a formare la prima comunità, già soprintendente ed architetto nella costruzione della monumentale basilica di San Bernardino all’Aquila. Sant’Angelo d’Ocre, nell’intenzione e del Beato Bernardino e dell’architetto Frate Francesco, doveva essere una “miniatura” del grande complesso monastico e sacro aquilano, da poco (1472) solennemente dedicato a San Bernardino. E, come i maggiori centri dell’Osservanza, anche Sant’Angelo d’Ocre, divenne, fin dalle origini, piccolo cenacolo di santità, di scienza e d’arte. Ne sono testimonianza gli splendidi “polittici” che l’ornavano fino al XIX secolo, e oggi fanno bella mostra nel Museo Nazionale d’Abruzzo all’Aquila. O anche quell’Ultima Cena affrescata nel refettorio, oggetto di studio d’illustri storici dell’arte come Ferdinando Bologna che lo attribuisce a Saturnino Gatti. Altrettanto preziosa e discretamente fornita doveva essere la biblioteca monastica, che proprio il Beato Bernardino da Fossa aveva voluto raccogliere sull’esempio dei suoi grandi maestri: San Bernardino da Siena, di cui portava il nome, San Giovanni da Capestrano, che lo aveva caro, e San Giacomo della Marca, che considerava in modo particolare “padre”. Non ancora sufficientemente illustrata la vicenda di questo prezioso deposito librario. Si ha soltanto notizia che un pronipote del Beato, il Dottore “in Utroque”, Antonio Amici, intorno al 1550 progettò la pubblicazione di una collana di opere dei Santi Bernardino da Siena, Giovanni da Capestrano e del suo prozio, appunto Beato Bernardino. L’operazione fu concordata con la tipografia del Vidali e del Nicolini, ma il grandioso progetto si concretizzò soltanto parzialmente. Le opere principali, come il Centurio e il Quodlibetum (autografi bernardiniani), entrarono, non si sa come, in possesso della Bilbioteca Marciana, che ancor oggi le possiede. La parte migliore della biblioteca del convento di Sant’Angelo d’Ocre si trova, oggi, nella Biblioteca Nazionale di Napoli, in quella Provinciale dell’Aquila e nell’Archivio di Stato della stessa città. La pubblicazione – desiderabile – dell’opera del Beato farebbe conoscere meglio la sua dottrina e la sua cultura, in particolare il reale interesse per Dante, più volte deitato, di cui si ha soltanto una duplice edizione del commento al canto mariano del Paradiso (c. 33). E dotti e santi furono molti dei religiosi che abitarono in Sant’Angelo, dalle origini continuando fino ai tempi recenti. Fu dimora appunto del Beato Bernardino, del Beato Timoteo da Monticchio, del venerabile Ambrogio da Pizzoli, di eletti religiosi come Nicola da Fara, segretario di San Giovanni da Capestrano, di Frate Girolamo da Spedino, di Frate Francesco dall’Aquila. E una eletta schiera di religiosi francescani di Abruzzo vi affinarono, fino alla santità, la loro vocazione francescana, lungo il corso di oltre cinque secoli. Fra questi i più vicini a noi nel tempo sono Padre Clemente Coletti, per tanti anni “maestro dei novizi”, continuando la bella serie, che risaliva al Beato Timoteo da Montecchio, ricordato dai suoi contemporanei come il “magister novitiorum”, quasi per antonomasia; Padre Edmondo De Amicis, missionario per un cinquantennio in Panama, attivo, stimato, esemplare figura di genuino “missionario francescano”, sulle orme del confratello e compaesano San Cesidio, figura sempre più affascinante di giovane, puro ed ardente di amore verso Dio e verso i fratelli ancora lontani dal Vangelo. San Cesidio stesso, figura luminosa di giovane martire, che esalta la secolare storia di apostolato, di dottrina, di santità di Sant’Angelo d’Ocre, elevandolo, a buon diritto, al privilegio e onore di luogo santo, per le insigni relique, sue e di santi confratelli, che vi si custudiscono e venerano facendone un vero “santuario francescano”. Nessuna meraviglia che esso abbia affascinato quanti vi si siano, o materialmente o idealmente incontrati, magari casualmente o a distanza, ammirandone la posizione, e ciò fin dal sorgere ed altrettanto nei nostri giorni: dal Beato Angelo da Chivasso, Vicario Generale dell’Osservanza nel 1480 al Duca d’Este, in visita al Conte di Montorio; da San Leonardo da Porto Maurizio al polistore Ludovico Antonio Antinori; dal Michelletti, dell’Arcadia, al Leosini; dal De Nino a Teofilo Patini; dal Ciampoli alla finlandese troupe televisiva, che vi s’imbatté casualmente e ne restò talmente affascinata da dedicare al luogo un servizio giornalistico sul settimanale “Suomen lavaiehti” (2001). Autentico “asilo dello spirito”, o invitante “lochetto devoto”, come si esprimevano il Beato Bernardino da Fossa e il Beato Angelo da Chivasso, Vicario generale dell’Osservanza Francescana Cismontana. Un anonimo verseggiatore del XVI secolo, in versi modesti nella forma ma elevati nel sentimento, lo esaltava quale ideale richiamo per anime sensibili al bello, nella natura e nel sentire:
Huc igitur propera…
quicumque cupis vaga sydera coeli sanctaque syderea sumere regna poli
huc propera….
Huc propera. .. malis quicumque periciis
mille subis…
Si quis animum peccata gravi moerore lacescunt ne dubita: hinc sancta liber abibis ope.
Primo Levi, nei suoi ricordi di viaggio, riecheggiava quasi l’anonimo, idealizzando la figura di un ospite del luogo: “Nella capannuccia, accarezzato dalla meravigliosa natura, con tanto azzurro di cielo, con tanta quiete d’intorno, posa e riposa l’anima travagliata, e quasi s’induce a credere in una vita che questa pace in terra inerte, contemplativa, priva di desideri, fatti di ineffabile soavità, prolunghi in eterno”.