testo di Ivan Masciovecchio.
Caratterizzato tra le altre cose dalla presenza di uliveti secolari che ne circoscrivono l’abitato, lo splendido borgo-presepe di Loreto Aprutino colpisce al cuore non appena lentamente si disvela in tutta la sua bellezza lungo la panoramica statale 151. Sulla sommità di Via del Baio – la direttrice che congiunge il Castello Chiola alla Chiesa di San Pietro Apostolo – insistono alcuni dei palazzi più significativi del paese, tra i quali quello della famiglia Valentini, i cui vini hanno scritto pagine indelebili della storia enologica nazionale. Pochi portoni più in là, dopo essere rimasta silente per circa 25 anni, dal 2016 è tornata in produzione anche l’antica Cantina Amorotti, attiva fin dal ‘700 ed in servizio per oltre due secoli.
L’idea di riportare a nuova vita questo immenso patrimonio di memoria e ricordi si deve al vulcanico Gaetano Carboni, già impegnato a Civitella Casanova con Pollinaria – azienda agricola, nonché residenza artistica e luogo di sperimentazioni e scambi creativi –, ultimo discendente di una famiglia giunta in Abruzzo dal Ducato di Mantova in maniera a dir poco rocambolesca, la cui attività agricola è documentata a queste latitudini fin dal ‘500 ed alla quale a Loreto Aprutino si deve anche il nome del palazzo sede del Museo dell’Olio, conosciuto da tutti infatti come Castelletto Amorotti.
Dopo aver affrontato un primo restauro conservativo degli ambienti interni «fragili e complicati» e aver provveduto all’acquisto di nuove attrezzature, il giovane Gaetano è tornato a far profumare di mosto le vie del centro storico, riprendendo il vecchio sistema di vinificazione utilizzato tempi addietro, con l’uva messa nelle cassette dopo la vendemmia e portata subito in paese per essere mandata nella pigiatrice attraverso uno scivolo d’acciaio posto in corrispondenza di una finestrella visibile sulla facciata del palazzo lungo Via del Baio. «Operazione oggi non semplicissima – ci confida lui stesso, aprendoci con pudore le porte di quella che fino ai primi anni ’50 è stata la casa dei suoi bisnonni materni e da allora disabitata – sia perché la strada è pubblica, sia soprattutto perché la chiesa situata a pochi metri di distanza, nei mesi di vendemmia risulta particolarmente attiva per matrimoni e altre cerimonie, pertanto dobbiamo fare avanti e indietro coi mezzi».
Varcando il portone di ingresso, ad accoglierci è una piccola corte di quello che in origine doveva essere un monastero del tardo ‘400, dove la parte più antica è rappresentata da quattro finestre in pietra vincolate dalle Belle Arti. «Alcune strutture dobbiamo ancora capire che funzione avessero, sicuramente c’è una vecchia cisterna per la raccolta dell’acqua realizzata in fasi successive, così come il preesistente canale di ingresso dell’uva scavato nella muratura e chiuso nell’800». All’interno della casa, carica di ricordi e suggestioni appare la cucina, dove tutto è stato volutamente lasciato come all’epoca dei bisnonni, con il tempo che pare essersi cristallizzato sugli arredi originali, i muri anneriti dal fumo, l’antica piattaia ed altri strumenti di lavoro appesi alle pareti.
La cantina vera e propria è situata ad un livello inferiore. Si snoda praticamente sotto due palazzi contigui, sviluppandosi lungo un dedalo di stanze dai pavimenti con acciottolato originale e dalle volte con mattoni a vista che trasudano fascino e mistero ad ogni passo. Si entra nella parte restaurata per prima, precisamente nelle stanze che accolgono pigia-diraspatrice e torchio, seguite da quelle che ospitano le botti – tutte nuove, di legno di rovere di Slavonia non tostato – utilizzate sia per la fermentazione che per l’affinamento. In particolare, ci si affida a tonneau da 550 litri per il Trebbiano d’Abruzzo, botti da 25 ettolitri per il Cerasuolo d’Abruzzo e da 50 ettolitri (a volte anche da 15) per il Montepulciano d’Abruzzo.
«In cantina cerchiamo di proseguire la lavorazione biologica che pratichiamo in vigna, limitando al minimo gli interventi attraverso fermentazioni spontanee e utilizzo di lieviti indigeni, nessun filtraggio e chiarifica, vinificando nel rispetto della tradizione, delle conoscenze che ci sono state trasmesse e del luogo nel quale ci troviamo. Il liquido resta nelle botti per un periodo variabile, comunque minimo un anno per Trebbiano e Cerasuolo, due per il Montepulciano. Il periodo di affinamento in bottiglia, invece, lo stiamo ancora sperimentando».
Mentre Gaetano prosegue nel racconto, con gli occhi ancora carichi di meraviglia ci spostiamo nella stanza più grande, restaurata in un secondo momento perché trovata in condizioni peggiori. Qui si trova l’antica vasca per la pigiatura chiamata calcatorium nella quale arrivava l’uva dalla finestrella incontrata nel chiostro sovrastante, ora murata, come detto in precedenza. Al centro dell’ambiente, una vasca quadrata di cemento (rifoderata) da circa 23 ettolitri, realizzata negli anni ’60, utilizzata sia per le fermentazioni che per i travasi. In futuro, la sala ospiterà anche altre due botti grandi da 50 ettolitri ed una da 25 dove si proverà a mettere a dimora anche il Trebbiano. «Attualmente produciamo circa 18.000 bottiglie, metà delle quali di Montepulciano d’Abruzzo e l’altra metà divisa tra Trebbiano e Cerasuolo, con leggera prevalenza del bianco. Con l’installazione delle nuove botti potremmo arrivare al massimo a circa 30.000 bottiglie, non di più, perché il piccolo-grande progetto, complicato ed affascinante, che stiamo portando avanti con impegno e passione vogliamo commisurarlo all’architettura esistente. Siamo sotto un vecchio palazzo e intendiamo realizzare solo ciò che lo spazio ci consente».
Oltre al luogo che li ospita, Gaetano ed i suoi sodali di ventura – con lui, la compagna sommelier Hela Bonaci, gli enologi Dario Perfetti e Nicola Di Ciano ed un’affiatata squadra agricola per il lavoro sul campo – portano rispetto anche alla vigna, di vecchio e nuovo impianto, con allevamento a tendone realizzato con pali di legno di castagno scortecciati a mano; all’uva, raccolta con cura al sorgere del sole e portata subito in cantina affinché la temperatura non salga, attivando così la fermentazione; e soprattutto al vino, prodotto vivo che ha bisogno dei suoi tempi per evolversi e manifestare tutto il proprio carattere. «Le nostre uscite non seguono il calendario, ma rispettano l’andamento delle stagioni; col bianco, ad esempio, abbiamo messo in commercio prima l’annata 2017 e poi la 2016. Attualmente sono disponibili Trebbiano e Cerasuolo 2016 e 2017 e Montepulciano 2016».
Il viaggio profumato di mosto, sospesi tra passato, presente e futuro, si completa ripassando davanti alle botti dove attualmente riposa l’annata 2018. C’è anche il Montepulciano 2017 che aspetta solo il periodo giusto per essere imbottigliato. Arrivato il momento di assaggiare questi vini artigianali dal passo lento e meditato, Gaetano ci congeda affidandoci un altro piccolo tassello della propria filosofia lavorativa. «Il vino ha la grande capacità di dire ad ognuno di noi qualcosa di diverso. La nostra idea è quella di realizzare vini longevi, apprezzabili da subito, ma capaci comunque di evolvere nel tempo. Vini che portino dentro il loro terroir, il locus dove la vite affonda le proprie radici, vini che siano il racconto dell’annata che li ha generati, sempre diversi tra loro, figli del clima e delle condizioni ambientali nelle quali hanno preso forma e sostanza; come nel 2016 con l’inverno caldo e l’estate umida, fredda e piovosa, al contrario del 2017 caldissima e siccitosa».
Vini che esortano a non dimenticare mai, le nostre origini e la strada che noi ed i nostri avi abbiamo percorso – in questo caso le vigne che abbiamo camminato – per arrivare ad essere quelli che siamo. Obliviscor Nunquam. Oltre all’immagine di un cuore trafitto da tre dardi – l’antico stemma di famiglia che ricorda amori finiti e dolorosi – questo è l’imperativo impresso sulle etichette delle bottiglie che Gaetano ci versa con cura. Il tappo di sughero riporta un codice cifrato – che non riveleremo neanche sotto tortura – capace di pervadere di mistero vini già carichi del gusto arcaico della memoria. Per scoprirne la soluzione non resta che berli, lasciandosi conquistare da un racconto d’Abruzzo che sa di passato, ma che viaggia spedito verso il futuro. Una storia d’amor(otti) alla quale augurare lunga e buona vita, portando in alto i calici e dissetando il cuore.