La chiesa di Santa Maria del Piano di Loreto Aprutino, antica fondazione risalente all’ VIII secolo, fu dipendenza dell’abbazia di Montecassino e successivamente di quella di San Bartolomeo a Carpineto della Nora. Sulle sue mura, nella sua pianta, conserva i segni della sua storia secolare fatta di ricostruzioni, modifiche, aggiunte
di Francesca Larcinese, foto Gino Di Paolo

Ad una prima versione della chiesa, di cui non rimangono tracce, se ne sostituì una seconda nell’anno 1280, in cui trovarono spazio alcune soluzioni architettoniche di schietta matrice borgognona. In Europa questo è il secolo delle grandi cattedrali e Loreto Aprutino si allinea alle nuove tendenze della coeva architettura: viene eretta una grande chiesa a navata unica in cui quattro archi trasversi, ad ogiva, suddividono lo spazio in cinque campate, in cinque unità spaziali giustapposte in cui trovano spazio le cappelle laterali.
Nel XVI secolo l’abate Umbriani volle lasciare il segno del proprio intervento sulla chiesa: in vista della sepoltura delle sue spoglie mortali in questo luogo, fece demolire l’antica abside e ne fece costruire una nuova, poligonale, con cinque lati aggettanti all’esterno ed aggiunse in facciata il portico finestrato che precede il portale d’ingresso alla basilica. Sull’ingresso posto sul fianco destro della basilica venne affissa un’ iscrizione recante il nome dell’abate e la data di conclusione dei lavori: l’anno 1560. L’Umbriani, in verità, non venne mai seppellito in Santa Maria del Piano, ma la sua lastra sepolcrale con inciso lo stemma della famiglia e l’enigmatica scritta “Ab (i)is linguis et iniquis libera me Domine”, rimase a segnare il centro della chiesa.
Isolato dal centro urbano di Loreto Aprutino l’edificio sorge in prossimità di un’antica necropoli; la sua intitolazione deriva probabilmente dall’antico tempio dedicato al “Pio Giano” sul quale essa è stata costruita: “in Piano” sta a indicare non tanto la morfologia del paesaggio, ma la corruzione del nome della divinità “bifronte” – Pio Giano – protettrice dei varchi, degli ingressi, dei luoghi di passaggio.
All’interno, sulle pareti, tagliate e ricucite nel corso dei numerosi rimaneggiamenti, trova spazio un ricco corredo di pitture murali, seppure mutilo, fra le quali, in controfacciata, troneggia la raffigurazione di quello che solitamente viene indicato come Giudizio finale; vi sono anche le Storie di San Tommaso d’Aquino, nella quinta cappella a destra, le Storie di Cristo e della Vergine, nella terza cappella sullo stesso lato e numerosi pannelli con la raffigurazione di Santi, sparsi all’interno della chiesa.
L’attenta ricostruzione di Don Elio Marighetto, parroco della chiesa, ci aiuta a capire come, già nel 1280, essa fosse completamente decorata ad affresco, ma nel tempo, a più riprese, tale apparato pittorico venne aggiornato. Già agli inizi del XV secolo un’equipe di pittori umbro-marchigiani, lavorò alla decorazione della quinta campata destra: su commissione della famiglia D’Aquino, feudataria della zona, essi raccontarono per immagini la storia del loro antico antenato San Tommaso, secondo la versione tramandata dal confratello Guglielmo da Tocco.
Sul lato destro della terza campata lavorarono invece alla narrazione delle Storie del Cristo e della Vergine, di cui rimangono le poche scene della Deesis, ossia della preghiera di intercessione della Madonna e di San Giovanni Battista presso il Cristo, l’Adorazione dei Magi, la Resurrezione, l’Incoronazione della Vergine ed alcuni lacerti dell’ Ascensione e della Pentecoste.
Da oltre un secolo il grande Giudizio finale, dipinto su una preesistente decorazione pittorica di cui rimangono tracce sporadiche, è al centro di un dibattito che coinvolge vari aspetti della sua analisi ed interpretazione: iconografia, datazione, paternità.
Il primo interrogativo – cosa rappresenti questa pittura murale – è ancora oggi motivo di divisione fra gli storici dell’arte, separati fra il partito di coloro che ritengono si tratti di un giudizio universale e quello che invece lo interpreta come giudizio particolare: a conciliare le due fazioni è giunta l’interpretazione fornita da Marighetto il quale, con solide argomentazioni, sostiene che si tratti di una Visione dell’Oltretomba cui sono stati aggiunti elementi desunti dalle scene di Giudizio. La raffigurazione dell’Inferno – scomparso a causa dell’aggiunta dell’organo nel XVII secolo – del Purgatorio e del Paradiso, deriverebbe dalla lettura della Visione dell’Oltretomba del frate Alberico da Settefrati che tanta influenza ebbe sulla cultura mistica dei secoli XII-XIV (vedi pagina accanto).
La monumentale raffigurazione è suddivisa in tre registri, tutti ugualmente densi di contenuti iconografici e spirituali.
Nel registro inferiore, all’estrema sinistra è collocata la Porta del Paradiso presidiata da San Pietro: coloro che la attraversano hanno superato la prova del “Ponte del Capello” – che diventa sottile al passaggio degli iniqui, che così cadono nel fiume del Purgatorio, ma si lascia attraversare dai giusti – e sono stati “pesati” da San Michele che tiene fra le mani la bilancia; usciti dal Purgatorio possono così accedere ad un Giardino delle delizie ricco di alberi e frutti. Nel registro superiore trova spazio al centro la cosiddetta Etimasia, l’adorazione del trono vuoto davanti al quale stanno i santi Francesco, Domenico ed Agostino: su di esso svetta una croce circondata dagli strumenti della Passione del Cristo – preludio del Giudizio finale – che fa da asse mediano alla distribuzione delle schiere dei Beati. Nell’ultimo registro, un Cristo in trono, all’ interno di una mandorla di luce è al centro della cosiddetta Deesis, la preghiera di intercessione di Maria e San Giovanni Battista, presso il Giudice.
Bisogna certamente convenire con Enrico Santangelo quando sottolinea come la presenza dei due santi mendicanti Francesco e Domenico, in adorazione del trono dell’Etimasia obblighi a considerare l’interpretazione della Visione anche alla luce della Commedia dantesca ed in particolare del canto XI del Paradiso, in cui il poeta si profonde nell’esaltazione dei due santi “l’un fu tutto serafico in ardore, l’altro per sapienza in terra fuedi cherubica luce uno splendore” (Paradiso XI, 37-39).
I due quesiti successivi – chi ha realizzato la grande pittura parietale ed in quale momento – costituiscono due nodi critici assai rilevanti; giunti ormai all’idea condivisa che la “Visione” sia stata eseguita intorno agli anni ‘20 del XV secolo, rimane meno netta la definizione della personalità del maestro che guidò il cantiere pittorico lauretano. Gli studi più recenti condotti intorno a quest’ultima personalità partono dal riconoscimento dell’intervento del cosiddetto Maestro di Offida – che prende il nome dall’aver realizzato gli affreschi absidali della chiesa di Santa Maria della Rocca nel borgo marchigiano di Offida (provincia di Ascoli Piceno) – nell’esecuzione del ciclo con Storie mariane e cristologiche, nella terza cappella destra di Santa Maria del Piano a Loreto Aprutino: giunto in Abruzzo con la sua bottega egli lasciò che un suo stretto collaboratore, pure attivo con lui nel cantiere di Offida, conducesse i lavori sulla controfacciata e dunque l’esecuzione dell’intera “Visione dell’Oltretomba”. Si è parlato così in anni più recenti (Pasqualetti 2003) di un “Maestro del Giudizio di Loreto Aprutino” per il quale è ancora in via di riconoscimento un più certo catalogo delle opere.
Superando ogni possibile perplessità di carattere stilistico o relativa all’attribuzione, la chiesa di Santa Maria del Piano va riconosciuta come un “Tesoro d’Abruzzo”, un luogo fisico, in cui culture diverse – architettoniche, artistiche, religiose – si incontrano e danno luogo ad un complesso unico ed irripetibile di inusitata bellezza.
La Visione dell’Oltretomba
la Visio Alberici e la tradizione islamica
Il testo letterario che è alla base della Visione dell’Oltretomba in Santa Maria del Piano è stato individuato nella cosiddetta “Visione di Alberico” che il frate ebbe all’età di nove anni in preda ad una malattia: in essa – ha sottolineato Corrado Gizzi – così come nella sua traduzione pittorica si riconoscono elementi desunti dalla cultura islamica, probabilmente dovuti ai contatti che Montecassino, abbazia in cui visse Alberico, ebbe con l’Oriente, e che influirono sulla versione scritta della sua visione. In particolare il cosiddetto “Ponte del capello”, attraverso il quale le anime dei Purgati attraversano il fiume di pece e si recano alla pesa delle anime, è elemento desunto dalla tradizione persiana del Chinvat, un ponte anch’esso posto sull’abisso dell’inferno all’inizio del quale gli angeli Mitra e Rashno pesano le anime prima dell’attraversamento (per approfondimenti si veda: Gizzi C., Il Ponte del capello. Elementi della tradizione islamica e della Visione di Alberico nella poesia di Dante, Pescara 2008). Anche la visione del Paradiso come “Giardino di delizie”, come luogo ricolmo di fiori e di frutti è certamente debitrice nei riguardi di alcune sure del Corano, dimostrando dunque, un’inattesa convivenza di elementi provenienti da ambiti culturali assai diversi.