L’eremo di Sant’Onofrio presso Sulmona è uno degli episodi architettonici più affascinanti della vita di Pietro Angelerio: frate benedettino, fondatore dell’Ordine dei Celestini e poi papa con il nome di Celestino V
di Raffaele Giannantonio, foto Giampaolo Senzanonna
Era entrato nel 1231 nell’ordine in Santa Maria di Faifola presso Montagano (Cb), nella valle del Biferno; di qui si avviò per Roma, ma, raggiungendo Castel di Sangro (Aq), si mise in cerca di un luogo adatto a soddisfare l’esigenza di solitudine, che la tradizione fa corrispondere al Santuario della Madonna dell’Altare, fondato dai Celestini del Trecento a memoria della sua prima esperienza eremitica. Pietro raggiungerà lo stesso Roma, ove nel 1238 venne ordinato sacerdote, ma la sua vocazione lo dirige di nuovo in Abruzzo, stavolta verso la ricca ed industriosa Sulmona (Aq), città più importante dell’intera regione. Scelse dunque un sito a circa cinque chilometri a nordest dell’abitato, alle pendici del monte Morrone, vicino a quello che era stato il grande santuario di Ercole Curino. Fu Gentile di Rainaldo a condurlo nella grotta per mostrare il luogo ove Flaviano da Fossanova aveva vissuto in eremitaggio; Pietro vi abitò, nella zona corrispondente alla parte absidale della piccola chiesa di Santa Maria, da lui stesso iniziata, nel primo nucleo di quella che sarebbe divenuta l’abbazia di Santo Spirito al Morrone, destinata a crescere d’importanza sino a divenire la Casa Generalizia dei Celestini, dal 1293 sino al 1807, anno della soppressione dell’ordine. La sacra inquietudine gli fece riprendere il cammino, stavolta verso la Maiella, ancora in cerca di solitudine spirituale. Tuttavia le incombenze di capo di un ordine religioso che diveniva via via sempre più grande e potente non spense la vocazione di Pietro alla vita solitaria, tanto che, dopo l’arrivo a Santo Spirito, decise di rifugiarsi in altri eremi sulla Maiella, ricostruiti per alloggiare lui e pochi compagni. Qui Pietro trascorse gli anni tra il 1284 ed il 1293 quando decise di tornare sul monte Morrone, nell’eremo di Sant’Onofrio, l’ultimo da lui costruito ed abitato. Fu in Sant’Onofrio che, nel luglio del 1294, l’eremita venne raggiunto dagli emissari che gli consegnarono il decreto di elezione a papa emesso dal conclave di Perugia. Nell’ottobre di quello stesso anno il nuovo papa tornò a Castel di Sangro, sostando per dieci giorni durante il suo viaggio per Napoli, nel corso del quale dovettero maturare ulteriori gravi avvenimenti che lo portarono “gran rifiuto”, tuttora avvolto nel mistero. Ancora sul Morrone Celestino, tornato Pietro, si rifugiò nel febbraio 1295, cercando di sfuggire al suo successore Bonifacio VIII che finì per imprigionarlo nella rocca di Fumone in una cella di meno di quattro metri di superficie, l’ultimo ed involontario “romitorio” nel quale Pietro visse per nove mesi, fino al 19 maggio 1296. Il suo destino era di tornare in finis alla vita solitaria, ma quest’ultimo soggiorno lo privò dell’acqua dei fiumi, del parlare silente dei boschi, della carezza del sole e delle stelle e, soprattutto, del soffio libero del vento, con i quali egli componeva il meraviglioso progetto di un’architettura interiore cui non tutti vollero partecipare. Molti anni dopo, nel 1327, le sue ossa furono raccolte nel sepolcro che sorge nella “sua” Collemaggio, nella cappella ove nel 1517 Girolamo da Vicenza realizzò il Mausoleo.
L’eremo oggi
L’eremo di Sant’Onofrio, come oggi appare, è per gran parte frutto di una ricostruzione seguita ai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Una preziosa testimonianza di fine Ottocento è quella di Pietro Piccirilli, che così lo descrive nei suoi Monumenti architettonici sulmonesi: “La chiesetta (…) è coperta da una volta a botte, ed ha due altari moderni ai lati, con le statue di Sant’Onofrio e Sant’Antonio Abate (…) di nessuna importanza artistica. Nel fondo si apre un arco che mette in una cappellina o oratorio (…), alla quale si ascende per tre gradini. L’icona di questa piccola cappella rappresenta, in affresco, il Crocifisso con Maria e Giovanni ai lati, e due angeli sui bracci della croce (…). La volta, anche a botte, è dipinta di azzurro e seminata di otto raggi. Nella lunetta che sovrasta l’icona, è la figura della Vergine tra il sole e la luna su fondo azzurro; stringe al seno il bambino ed è seduta in un trono dipinto di giallo (…). Le pitture descritte (…) sono una rivelazione dell’arte pittorica locale del XIII secolo. Un magister Gentilis, di certo sulmonese, le portava a compimento al tempo in cui fra’ Pietro faceva penitenza nell’Eremo”. Anche nelle pareti laterali si trovavano dipinti, distrutti però all’inizio del Trecento e sostituiti da altri fra i quali un riquadro rettangolare, con la figura di Celestino. A destra dell’icona, lungo il muro si apriva la porta di accesso ad un corridoio “stretto ed oscuro”, da cui si vedevano “gli usci della cucina e delle camere del custode”. In fondo al fabbricato era una piccola sala “con un nicchione di fronte, decorato da rozzi affreschi (…), aggiunzione fatta in epoca posteriore”. Sebbene la planimetria delle due cappelle corrispondesse alle descrizioni sino ad allora pervenute, erano scomparsi “per la smania di ammodernare, gli indizi di antichità della prima cappella dinanzi all’oratorio, la quale non era che un atrio coperto da un solo tetto, ove si raccoglieva la gente per venerare il Santo”. Si giunge quindi alle distruzioni seguite al tragico 17 ottobre 1943, quando i militari tedeschi colpirono l’eremo con 51 cannonate “distruggendo le parti più esposte del medesimo e cioè quella orientale ed occidentale, i di cui muri perimetrali, tetti e volte precipitarono nei profondi burroni sottostanti. La Chiesa, alcune stanze fra cui quella della canonica e del custode resistettero, ma rimasero gravemente danneggiate e prive di copertura”, così come riferisce una perizia del Corpo Reale del Genio Civile datata 5 novembre 1946. Il cannoneggiamento era motivato dal fatto che ai piedi del Morrone, in località Fonte d’Amore, esisteva un campo di concentramento dal quale erano appena fuggiti alcuni prigionieri di guerra inglesi ed americani, rifugiatisi proprio nei locali dell’Eremo, nel probabile tentativo di comunicare con i loro compagni che si stavano avvicinati alla città. L’intervento di ricostruzione operato nel dopoguerra conserva lo sviluppo in pianta della preesistenza, alterandone però l’alzato, come dimostra il loggiato con dieci archi a tutto sesto realizzato nel primo livello del fronte verso valle. All’interno, nella chiesa viene eliminata la volta a botte, liberando alla vista il soffitto ligneo e due affreschi del XV secolo, mentre nell’oratorio si risistema l’antico altare lapideo trasferito sin del 1826 in Cattedrale, lasciando intatto il suggestivo ambiente e le due cellette successive, in cui alloggiarono Pietro e di Roberto da Salle. La caratteristica sensazione d’intimità finisce poi per dilatarsi nel terrazzo del secondo piano, da cui si ammira un’incantevole vista della valle Peligna. Una larga scalinata conduce alla grotta sottostante l’eremo, preceduta da un ambiente coperto a volta ed illuminato dalla cancellata d’ingresso, dal sovrastante sopralluce ellittico e da due piccole finestre. Di qui si raggiunge la grotta vera e propria, profonda poco meno di 5 metri, il cui pavimento in salita rende ostile l’ambiente man mano che si procede. Sulla parete destra è scavata una piccola vasca che raccoglie l’acqua che gocciola dall’alto, mentre la grande croce di legno, collocata in un angolo, marca ulteriormente la sacralità del luogo. Oggi l’architettura nata dall’opera di Pietro sembra ancora voler indicare un percorso attraverso il Molise e l’Abruzzo, lungo quella dorsale che egli attraversò nelle fasi cruciali della sua vita, sostando tra le montagne sacre che ospitavano gli eremi, la Maiella ed il Morrone. A ben riflettere la preziosa eredità che Pietro ha lasciato agli uomini è proprio nello straordinario connubio tra l’architettura dell’abbazia di Santo Spirito che, pur elevandosi gloriosa dalla terra al cielo, vive in stretto rapporto con la natura che la genera, nutrendosi del cielo e dei fiumi che ne costituiscono infine la culla eterna e l’eterno lascito.