testo e foto di Ivan Masciovecchio.
Storicamente rifugio di santi, pastori, eremiti e briganti, negli anni del secondo conflitto mondiale il ventre protettivo della Majella madre ha rappresentato anche un luogo di accoglienza per i soldati italiani e degli eserciti alleati in fuga dai campi di prigionia tedeschi dislocati sul territorio. Contrappuntata da grotte, boschi e radure, tra i piccoli, grandi accadimenti storici incisi fin nelle viscere di questa aspra ma generosa terra d’Abruzzo, la Valle dell’Orfento è stata testimone silenziosa dell’impresa messa a segno dal caporalmaggiore neozelandese John Evelyn Broad, scappato insieme ad altri militari dal campo di Acquafredda nei pressi di Roccamorice la sera dell’11 settembre 1943 ed alla macchia fino all’aprile del 1944.
Una fuga per la libertà portata a termine grazie alla protezione e all’assistenza della povera gente del luogo – contadini e pastori resistenti che nonostante il pericolo di rappresaglie e fucilazioni hanno saputo scegliersi la parte dietro la linea Linea Gustav –, da lui stesso raccontata attraverso otto diari compilati alla fine di ogni giorno e qualche volta quando gli eventi erano in corso; divenuti poi il libro “Poor people, poor us”, pubblicato originariamente in Nuova Zelanda nel 1945 e rimasto inedito in Italia fino al 2016 quando la giovane caramanichese Cristina Parone si è presa la briga di tradurlo in italiano, curato e stampato meritoriamente dalla cooperativa Majambiente di Caramanico con il titolo “Povera gente, poveri noi” e giunto ora alla sua seconda edizione per i tipi di Menabò.
Partendo dalle meticolose descrizioni dei luoghi annotate dallo stesso John Evelyn Broad, la succitata cooperativa ha deciso di ripercorrerne anche fisicamente i passi, tracciando con il supporto di alcuni anziani abitanti del paese – memoria storica e testimoni preziosi da accudire e tutelare come patrimonio dell’umanità – un nuovo cammino che va ad aggiungersi agli oltre 900 chilometri già esistenti all’interno dei 70.000 mq di superficie del Parco Nazionale della Majella.
Inaugurato alla presenza del figlio del militare neozelandese, nel maggio scorso quindi è stato istituito il Sentiero della Libertà nella Valle dell’Orfento, tredici chilometri di facile praticabilità percorribili autonomamente (previa registrazione al Centro Visite della valle) oppure – opzione vivamente consigliata – in compagnia delle guide di Majambiente attraverso uscite organizzate arricchite dalle letture di stralci del diario a cura dall’attrice Francesca Camilla D’Amico del Muré Teatro di Pescara (prossimi appuntamenti venerdì 25 agosto e 1 settembre, info al numero 085 922343 oppure al sito www.majambiente.it).
Comunque lo si voglia vivere, è un percorso ad anello che vale un tesoro quello nel quale ci si ritrova immersi con il cuore in subbuglio e l’anima in pace, che prende avvio dalla frazione di S. Croce, qui dove ancora oggi gli anziani abitanti considerano Caramanico un paese altro e lontano, ma allo stesso tempo si aprono all’accoglienza proprio come fecero (da giovani) settant’anni prima, rifocillando con un piatto di pasta sconosciuti in fuga da un nemico comune, custodendone le preziose memorie in un fienile a rischio della vita.
A guidarci il passo lento, svelandoci i tesori nascosti che quest’area protetta sa offrire con straordinaria generosità, la competenza di Salvatore Costantini, coordinatore regionale e membro del Consiglio nazionale AIGAE, l’Associazione Italiana Guide Ambientali Escursionistiche costituitasi 25 anni fa proprio qui in Abruzzo e che dal 27 al 29 ottobre prossimi si riunirà a Civitella Alfedena (AQ) per il proprio meeting italiano.
Siamo a circa 700 metri di altitudine, nella parte terminale della valle, con il fiume ancora lontano, ma non così tanto da non poterlo ascoltare scorrere impetuoso. Si procede in lieve pendenza sul versante sud della montagna, immersi in un bosco misto di roverella, acero, orniello; quest’ultima pianta rievoca in Salvatore ricordi di gioventù, «quando si utilizzava per realizzare delle fionde rudimentali, essendo dotata di rami a V e insolita flessibilità». In zona Le Coste, una delle poche aperture che si incontrano lungo il tragitto, sono ben visibili sulle rocce davanti a noi le stratificazioni succedutesi nel corso di millenni. «È anche un luogo ideale per avvistare cervi – ci dice sempre Salvatore – ma non a quest’ora del giorno». Sull’altro lato della montagna, la frazione di Decontra fa capolino tra le rocce.
La prima deviazione dal percorso ufficiale ci ricorda che molto probabilmente gli occhi di John Evelyn Broad non ebbero tempo di soffermarsi sulla grande bellezza che lo circondava, braccato ed impaurito com’era. Si arriva quindi alla Masseria, un rifugio utilizzato più volte durante la fuga. Purtroppo le ultime nevicate ne hanno distrutto completamente il tetto, mentre la vegetazione che cresce rigogliosa impedisce di avvicinarsi. Poco male perché qui gli occhi non servono; anzi, sarebbe meglio chiuderli del tutto. Qui bisogna solo ascoltare, in silenzio, core a core, tra il frinire delle cicale; farsi un tutt’uno con le parole di Broad e poi dolcemente lasciarsi conquistare dal canto di Francesca che ricorda la primavera del 1945, quando il grano maturò e tutta Italia si levò ohè.
Si torna indietro riprendendo il sentiero con una intensità nuova. Non si fa in tempo a prendere nota di una pianta, di un fiore, che subito se ne incontra un’altra, e un’altra ancora. Facciamo così conoscenza col verbasco, chiamata anche carta igienica del pastore per via delle foglie decisamente morbide; con il donnolino, della famiglia della ginestra; con la carnivora pinguicola. E poi l’origano, la mentuccia, l’asparago, il salice, il sorbo, il pungitopo, in un tripudio di profumi che sanno di buono. «Inoltre a maggio è tutta un’esplosione di orchidee» chiosa Salvatore.
Al Ponte del Vallone, dove Majambiente organizza uscite didattiche con le scuole, si attraversa il fiume; non sarà l’unica volta nel corso dell’escursione. Poco dopo, il nostro cammino si interseca e si sovrappone con il Sentiero dello Spirito in arrivo da Sulmona verso l’eremo di S. Onofrio. Ci lasciamo alle spalle il bosco misto addentrandoci in piena faggeta. L’Orfento sulla destra accompagna i nostri passi fino al Ponte di Pietra da dove ci si inerpica verso la Grotta di Quattrino all’interno della quale i pastori nascondevano pecore ed altri animali per sottrarli alle razzie tedesche.
Anche questo luogo fu utilizzato più volte come nascondiglio ma mai a lungo in quanto piuttosto scomodo. Un altro canto di libertà rinnova il nostro carico di emozioni. Riscendendo verso il fiume, ci pervade la consapevolezza che benché nessuno dei presenti sia in marcia per conquistare un diritto acquisito a duro prezzo, ognuno porti con sé il suo piccolo, grande carico di preoccupazioni dalle quali fuggire, prigioniero delle proprie convinzioni e convenzioni.
Attraversato il ponte, lungo uno dei passaggi più belli in assoluto dell’intero percorso, tra rocce, muschio, bosco e lo splendido ed impetuoso salto dell’Orfento nella pozza d’acqua chiamata Callarone, ci si dirige verso la Grotta di S. Nicola, la più lontana, utilizzata dai paesani soprattutto per ammassare cibo e legna. Il rifugio vero e proprio nel quale si ripararono i fuggiaschi è esattamente di fronte al pertugio, raggiungibile con una scaletta che consente di attraversare il fiume. Le pagine del libro ci rivelano di come John e compagni sperimentarono una morte in vita, sepolti quasi per intero da una slavina.
Tutta la zona – chiamata Piscia Giumenta – per via dell’acqua che filtra in continuazione dalla montagna soprastante, è un vero e proprio scrigno di biodiversità e storia, con scenari ambientali da favola. Una fiaba tratteggiata anche a tinte dark, come dimostrano le distese di tronchi spezzati a causa delle abbondanti nevicate dell’inverno passato, segno di una natura che a volte sa essere anche madre crudele.
La Grotta di S. Angelo si avvista da lontano, alzando lo sguardo sulla destra. Non rappresentava un vero e proprio nascondiglio, ma piuttosto un punto d’appoggio verso Decontra, dove stipare armi e cibo per gli abitanti del luogo. Lungo il cammino verso la Grotta di Cantrella quasi in sequenza ci si imbatte in un lungo Cervone che ci incrocia davanti, strisciando e poi dileguandosi alla nostra destra, e in una carcassa di cervo probabilmente abbattuto da un lupo. In alto volteggiano poiane e davvero non si smette mai di stupirsi davanti a questo spettacolo a cielo aperto.
La quinta e ultima tappa è al Grottone, situato sotto il buco di Cialone a mezza costa sul precipizio del burrone, luogo particolarmente esposto e molto vicino al paese. Il ponte in ferro e cemento che conduce all’abitato di Caramanico, primo segno di urbanizzazione dopo ore di immersione nella natura primordiale, è ormai visibile in tutta la sua modernità. Francesca ci saluta omaggiando i caduti della leggendaria Brigata Maiella, la formazione partigiana guidata da Ettore Troilo che dall’Abruzzo risalì tutta l’Italia contribuendo anche alla liberazione di Bologna. Si canta della meglio gioventù finita sottoterra per difendere la nostra libertà.
Asciugandoci gli occhi bagnati non solo dal sudore, si rientra al centro visite tramite le famose Scalelle, la camminata più frequentata e accessibile che conduce verso il fiume dove, come ci confida infine Salvatore, non è difficile imbattersi in escursionisti in ciabatte ed attrezzature da mare, convinti che tra le fresche acque dell’Orfento ci si possa comodamente sistemare come in spiaggia. D’accordo la libertà, ma c’è ancora molto da fare. Scusaci anche per loro, John.