testo e foto di Ivan Masciovecchio.
«Pensate che cosa meravigliosa». Che si parli della riscoperta di vitigni autoctoni o delle numerose virtù dell’olio extravergine d’oliva, di valorizzare le tipicità locali o delle sane abitudini alimentari, così il prof. Leonardo Seghetti ama ripetere durante le sue lezioni. Docente di chimica agraria nonché uno dei massimi esperti di enogastronomia in Italia, lo ha fatto anche ieri nell’ambito della prima edizione di Prima Secca. Il mare senza confini – evento dedicato al pesce dell’Adriatico in programma sul lungomare di Alba Adriatica fino a domenica 2 luglio – chiamato ad intervenire all’incontro su Pane e vino. Produzioni millenarie unite dalle fermentazioni naturali. Coordinato dal giornalista Sandro Sangiorgi, il convegno dal titolo siloniano ha visto la partecipazione anche di Sofia Pepe della storica azienda vitivinicola di Torano Nuovo (TE) e di Walter D’Ambrosio della fattoria Le Gemme di Martinsicuro (TE).

Districandosi tra batteri, lieviti, enzimi e microrganismi vari, non era facile mantenere alta l’attenzione, eppure anche in questa occasione il prof. Seghetti è stato capace di trasmettere al pubblico presente, con parole chiare e doverose, tutto il proprio sapere e la propria passione sulle materie oggetto della discussione; quella lievitazione naturale del pane e fermentazione spontanea nel vino di cui fino a qualche anno fa non si parlava minimamente e che invece negli ultimi tempi hanno restituito una idea di vitalità alle due materie prime prese in esame, necessarie per il nutrimento dell’uomo; sostentamento fisiologico nel caso del pane, più spirituale e culturale se riferito al vino.

Un racconto affascinante che ha chiarito, finalmente, come una parte fondamentale della ricchezza aromatica e della complessità odorosa del vino derivi proprio dal processo fermentativo, smentendo la vulgata comune che attribuiva il merito esclusivamente all’uva ed al contenitore usato per fermentarla, certificando di fatto l’importanza dell’utilizzo di lieviti indigeni. «Oggi siamo arrivati al punto in cui si selezionano lieviti in base al gusto che vogliamo dare al vino – ha dichiarato il prof. Seghetti – andando a stravolgere in questo modo la natura stessa del vitigno e l’impronta del territorio, del terroir, facendo perdere ai vini la propria identità, come sta succedendo ad esempio per il Trebbiano d’Abruzzo».

Rimasto letteralmente rapito dalle lezioni del prof. Seghetti, da circa dieci anni l’apicoltore Walter D’Ambrosio è impegnato anche nell’arte della panificazione. Sei mesi e tanti tentativi andati a vuoto ci sono voluti per la prima fermentazione di lievito madre, ma alla fine il processo ha avuto inizio. «Ed è stato bellissimo vederlo crescere e prendere vita – dice Walterino, così come viene chiamato dal prof. Seghetti, che lo ha guidato passo dopo passo nella sua avventura – anche se le prime volte il pane usciva un po’ troppo duro. Migliorandomi continuamente ho cominciato a ricevere sempre più richieste, passando dal consumo domestico alla vendita a terzi. Ho costruito così un vero e proprio laboratorio ed un forno a legna dove oggi continuo a produrne non più di 20-30 chili al giorno. Conservo due paste madri, una delle quali realizzata con lieviti di uva Montepulciano fermentata a temperatura ambiente, dopo un primo tentativo fallimentare fatto con le mele. È complicato perché vanno tenuti sempre in ambienti puliti e in contenitori dedicati e poi bisogna mantenere sempre bassa la temperatura altrimenti inacidiscono; quindi frigoriferi in estate e temperatura ambiente d’inverno».

Il senso di questo impegno, di questa volontà di rinnovamento di gesti dal sapere antico, forse risiede nel volersi sentire e riconoscersi di nuovo compagni – nel senso etimologico del termine – all’interno di una comunità, persone vicine unite dallo stesso pane, come ha ricordato il prof. Seghetti. «Walterino non fa altro che riproporre il rituale della madia, dove c’era una spianatora ed un cassetto nel quale si riponeva lu bardasc infasciate, il bambino fasciato, ovvero il pezzo di pasta madre avvolta in un panno pulito e stretta con lo spago per non fargli prendere aria. Non avendo frigoriferi si metteva lì e negli altri spazi del mobile si riponeva il sacco di farina con il setaccio. Una volta alla settimana, quindi, ogni famiglia impastava il proprio pane, ognuno diverso dall’altro. Era il segno dell’ospitalità che noi abbiamo completamente dimenticato, chiusi nei condomini di città dove ci ritroviamo come lupi solitari che non si dicono più neanche buongiorno. Tornare indietro nel tempo è impensabile, ma è pure eticamente e moralmente folle continuare a buttare nei cassonetti 190 quintali di pane al giorno, come avviene a Milano, statistiche alla mano».

L’intervento di Sofia Pepe, figlia del patriarca Emidio, di recente omaggiato con il titolo di vignaiolo d’Italia e maestro della cantina (come si può leggere qui), ha ribadito, semmai ce ne fosse stato bisogno, l’assoluta grandezza della storia vitivinicola della famiglia, da sempre alle prese con le fermentazioni spontanee. «Sono cresciuta con questo modo di fare, per me è la cosa più naturale del mondo, da ragazzina non sapevo neppure dell’esistenza dei lieviti selezionati. Da noi si vendemmiava, si portava l’uva in cantina, si pigiava e dopo uno-due giorni partiva la fermentazione, un processo normale. Certo, ci sono stati anni in cui non si avviava ed eravamo un po’ in ansia, ma dopo ho capito che quei giorni sono importantissimi perché è proprio in quel momento che avviene la selezione dei lieviti. Alla fine, dalle annate più difficili con fermentazioni più lunghe, sono usciti i vini più complessi e interessanti».

Dal racconto polifonico intessuto nell’afoso pomeriggio di Alba Adriatica è venuto fuori, tra le altre cose, che chi sceglie di fare panificazioni naturali e fermentazioni spontanee, oltre ad avere una competenza notevole nella microbiologia chimica, dorme molto meno degli altri. È una vita molto più complicata la loro, ma senza dubbio anche più soddisfacente, dove non sono ammesse scorciatoie, dove ogni gesto ha un senso e tutto si tiene. «Anche il senso dell’impastare a mano ha una sua logica – chiarisce D’Ambrosio – perché così facendo si ingloba una quantità d’aria maggiore necessaria ai lieviti per riprodursi; e più lieviti ci sono, più il pane viene meglio».

«Papà ha sempre fatto il vino in maniera empirica – ha ripreso Sofia – ma io crescendo ho cominciato a chiedermi anche perché avvenivano certe cose. La presenza nel tempo di ragazzi inviati dalle università per uno stage durante la fermentazione, ai quali offriamo un momento di crescita e formazione fondamentali, si è rivelata utile anche per noi poiché ora, grazie anche ai loro studi ed alle loro tesi, possiamo disporre di una notevole mole di dati, oltre ad aver acquisito una diversa consapevolezza di ciò che accade durante il fondamentale processo fermentativo. A questo si aggiungono anche le analisi del nostro cantiniere che ogni giorno osserva al microscopio tutte le vasche per controllare come operano i lieviti, qual è il ceppo che dà l’avvio, quello che continua e quello che termina il lavoro. Di conseguenza oggi sappiamo come e dove intervenire, ad esempio, quando bisogna aggiungere aria, procedendo con il rimontaggio con le vasche grandi da 50 ettolitri e limitandoci alla follatura manuale tre volte al giorno, come preferisce papà, per quelle più piccole da 22».
E quando, in chiusura di incontro, sempre Sofia ha rivelato tutto lo spaesamento letto sui volti degli studenti in visita alla cantina – futuri enologi di domani – i quali non possono credere che il vino si faccia naturalmente anche così, perché a scuola viene insegnato che senza lieviti selezionati la fermentazione non parte, che senza prodotti chimici è impossibile fare il vino ed altre amenità del genere, ci si è resi conto intanto dello stato pietoso del sistema scolastico nazionale, ma soprattutto che di pomeriggi come questi, tra racconti di ritorno alla terra, di alimenti vivi e di coscienza contadina, ce ne vorrebbero ogni giorno di più.
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