testo di Ivan Masciovecchio.
Porta impresso il suo nome il Centro visite Valle dell’Orfento a Caramanico Terme, punto informativo, museo e spazio divulgativo per tutti i frequentatori del Parco nazionale della Majella. A lui è intitolato anche il rifugio allestito sul Monte Rapina, a oltre 1.500 metri di quota, tra le vette di quella montagna madre che lo ha accolto durante tutto l’arco della sua breve esistenza.

Lui è Paolo Barrasso, biologo e poeta abruzzese scomparso nel 1991 a 42 anni in circostanze drammatiche durante un’attività di perlustrazione in montagna, e Paolo dei lupi è lo spettacolo liberamente ispirato alla sua vita intensa e libera che l’attrice abruzzese Francesca Camilla D’Amico dell’associazione Bradamante Racconti Teatro Territori porterà in scena – in prima nazionale – nei giorni di sabato 2 e domenica 3 novembre prossimi negli spazi del Florian Metateatro di Pescara, all’interno della stagione 2019-20 della rassegna Teatro d’Autore e altri linguaggi (QUI il calendario degli spettacoli). Da lei che l’ha pensato, scritto e portato in scena ci facciamo raccontare la genesi di questo suo nuovo lavoro.
Ci aiuti ad inquadrare la figura di Paolo? Chi era e perché è importante conoscerne la storia?
Paolo nasce a Sulmona nel 1949. Inizia la sua carriera di biologo nel 1976 con il primo progetto per la salvaguardia del lupo appenninico in Italia, promosso dal WWF. In seguito si è occupato della reintroduzione di cervi e caprioli – animali ormai del tutto scomparsi sulla Majella a causa della caccia incontrollata – nonché della lontra, progetto che nel 1990 gli valse il premio Airone d’argento. È stato uno dei massimi esperti della volpe in Italia e negli ultimi anni della sua carriera aveva concentrato i suoi studi sugli orsi della Majella e sulla banca genetica del lupo.
Paolo univa al suo rigore di scienziato le più belle qualità di un sognatore, che manifestava con la poesia e la fotografia. Non ambì mai a posti di prestigio, preferì sempre portare avanti la ricerca in natura. Aveva capito, in anticipo sui tempi, che per proteggerla bisognava anche raccontarla. Da qui il suo impegno con le attività per bambini e ragazzi e con gli studenti delle università di tutta Italia che hanno reso Caramanico Terme il centro di moltissime attività e progetti, fondando il primo museo naturalistico d’Abruzzo, che ancora oggi racconta l’incredibile ricchezza e varietà della Majella. La sua storia educa alla passione, ad avere dei sogni che vanno oltre il successo personale e materiale. Una vita proiettata tutta verso il ripristino degli equilibri naturali e la valorizzazione del territorio che ha superato molti ostacoli e che oggi ci fa sentire Paolo ancora vivo su queste montagne.
Quando è morto tu avevi solo due anni. Come sei arrivata a lui, attraverso quali ricordi?
Si, purtroppo non ho avuto la fortuna di conoscerlo, ma la mia vita e il teatro mi hanno portato sulla Majella. Quando ho scelto di vivere a Caramanico Terme mi sono subito resa conto dell’incredibile ricchezza di questi luoghi. I narratori devono essere curiosi, imparare ad osservare e ascoltare perché le storie sono intorno a noi e, a volte, chiedono di essere raccontate. Così, nel 2015 ho incontrato la sorella di Paolo, Rita Barrasso, che portava con sé alcune poesie del fratello. Ho letto con grande commozione le parole di quest’uomo che interpretavano profondamente le emozioni e le immagini che mi accompagnano quando vado in montagna. Questa capacità di renderle universali, con poche pennellate, appartiene ai veri poeti. Da allora ho continuato a pensare a Paolo e a cercare informazioni.
È a partire dal novembre 2018 che ho iniziato a lavorare e a raccogliere ricordi e testimonianze su di lui. Ho incontrato delle persone meravigliose, amici e colleghi di Paolo che tra gli anni ‘80 e ’90 hanno fatto la storia delle battaglie per l’ecologia abruzzese, ma anche giornalisti che all’epoca si occupavano di naturalismo. Persone che amano profondamente la natura e lavorano in silenzio. Ho incontrato quelli che, quando Paolo andava appresso ai lupi, erano bambini e ammiravano questo strano personaggio che girava con una Land Rover Passo Lungo dotata di una grande antenna tipo quelle della TV e un pastore abruzzese di nome Orso al suo fianco.
Nello spettacolo l’altra figura protagonista è assolutamente quella del lupo, animale a torto demonizzato, vittima di una narrazione giornalistica che lo dipinge come nemico dell’uomo. È davvero così? Cosa rappresenta per te?
Per me è incredibile che al giorno d’oggi ci siano ancora persone che vedano questo straordinario predatore come il lupo cattivo delle favole e che alcune regioni parlino a sproposito del suo abbattimento. Tutto questo è assurdo, drammatico e anche un po’ comico e non perdo occasione per parlarne nello spettacolo. In Abruzzo abbiamo avuto i lupari, cacciatori specializzati nella cattura dei lupi e, nonostante questo, i lupi non sono mai scomparsi dalla nostra regione. Hanno sempre resistito. Sono animali che hanno un’adattabilità estrema e hanno saputo modificare il loro comportamento in base alle attività dell’uomo che li minacciava.
Per me il lupo, oltre ad essere un animale importantissimo per la salute del nostro territorio, è il simbolo di una resistenza, è la paura del diverso ma è anche lo spirito di libertà sconfinata della natura che non si può addomesticare, né possedere. Rappresenta quel mistero della vita che va contemplato e rispettato, senza voler esercitare il controllo su tutto.
Dopo aver raccontato la vita di donne dalla Majella al Gran Sasso adesso è la volta di un uomo segnato da un rapporto viscerale con la montagna. A te che nasci in riva al mare, cosa ti attrae di queste storie dell’Abruzzo interno?
Le storie del mare e quelle della montagna si somigliano. Le donne del mare e quelle della montagna conducevano vite molto simili e così i pastori, i pescatori e i contadini. Nascere a Pescara è stata probabilmente una fortuna perché dal mare ho sempre potuto guardare le montagne. La montagna è stata una presenza visiva costante nella mia vita, un orizzonte, e quando sono diventata grande abbastanza per andarmene in giro da sola, ho cominciato a esplorarla e così continuerò a fare in futuro.
Quello che porti avanti da anni è un teatro di narrazione incentrato soprattutto sulla figura dell’attore e sulla parola, con scenografie essenziali ed il supporto di pochi ma significativi oggetti di scena. Sarà così anche in questa occasione?
Stavolta ci sarà una scenografia che è, per me, una storia nella storia. Nel mese di marzo ho incontrato William Santoleri, un accompagnatore di media montagna che ha fondato Majella Trekking a Campo di Giove ed ha ideato e costruito il Pine Cube, un cubo sospeso a mezz’aria dal design minimalista dal quale si può osservare la natura e la fauna selvatica senza arrecare disturbo. A marzo, dunque, partecipo come narratrice ad un’escursione guidata da William e mi accorgo subito della sua preparazione e, soprattutto, della sua grande passione. Tra le storie che avevo portato con me in quel pomeriggio c’era anche quella di Paolo Barrasso. Non sapevo che William da bambino e poi da ragazzo era stato molto legato a Paolo.
Così la Majella ci ha fatto incontrare e ho scoperto anche che William è un artista eccezionale, basti guardare le sue opere per capire che c’è un lavoro e un esercizio di sguardo, di riflessione e sintesi della natura molto profondi. Per Paolo dei Lupi William ha quindi realizzato una faggeta con lamiera di ferro ossidata e zincata e filo di ferro cotto. Il colore del materiale utilizzato per la scenografia dello spettacolo ricorda la corteccia dei faggi. Un colore caldo ed espressivo nonostante si tratti di metallo. Con il filo di ferro cotto William gioca come se avesse una matita, disegna il contorno dei faggi come se si trattasse dei segni di un chiaroscuro. Sono onorata di lavorare con lui, che non metterà in scena soltanto una scenografia ma una vera e propria opera d’arte. Il personaggio del bambino che compare nella storia è chiaramente inventato, ma si ispira ai ricordi di William che da piccolo era affascinato dalla figura di Paolo Barrasso. Mi emoziona molto questo legame tra la storia narrata, la vita e l’arte. Credo sia il valore aggiunto di questo spettacolo.

Spettacolo che segna anche la collaborazione con il regista Roberto Anglisani. Che bilancio puoi trarne?
Roberto è un maestro, un gigante del teatro di narrazione per ragazzi, e non solo. I suoi spettacoli hanno vinto numerosi premi, guadagnandosi sul campo, in trent’anni di teatro, l’affetto e la stima del pubblico. Per me è innanzitutto un esempio e un punto di riferimento. Ho avuto la possibilità di incontrarlo in un suo laboratorio di narrazione al Florian Espace di Pescara. Lì ha ascoltato i miei primi tentativi di scrittura e narrazione di questa storia. Mi ha dato una serie di consigli che hanno funzionato immediatamente e qualcosa mi diceva che lui poteva essere la persona giusta alla quale affidare la regia.
Ma lui era Roberto Anglisani ed io una giovane narratrice indipendente e senza una produzione alle spalle. Mi sembrava difficile che potesse accettare una mia proposta. Invece eccoci qui a lavorare insieme. Ha amato la storia fin da subito ed ha visto in me una motivazione e un’esigenza autentica di raccontarla. La collaborazione con Roberto mi sta aiutando a trovare strade nuove nella narrazione. Con lui c’è un ottimo equilibrio tra tecnica, umanità, libertà, creatività, empatia. Una regia che è un laboratorio costante perché ho ancora tanto da imparare ed è bello che un attore esperto si dedichi al passaggio del proprio sapere ad un attore più giovane. Il nostro è un mestiere artigianale e ha bisogno di questo contatto diretto per parlare di trasmissione.
Da quello che ho potuto ascoltare nella breve ma intensa anteprima di studio, la narrazione è immersa anche nelle atmosfere rarefatte dei Sigur Rós. Che importanza ha la musica nell’economia della versione integrale e in generale nel tuo lavoro?
Nei miei spettacoli e nelle narrazioni sono spesso presenti musica e canti di matrice orale e di tradizione locale. Ma per raccontare Paolo, i lupi e portare il pubblico nel bosco di questa storia, desideravo un segno diverso che desse un respiro universale, capace di sostenere in maniera non didascalica la narrazione. Una musica che non si alterna, ma che cammina con il racconto. Ho scelto pezzi di musicisti e gruppi del Nord Europa. I Sigur Rós sono i primi che mi sono venuti in mente per le atmosfere dilatate che riescono a creare. Ci saranno pezzi di Hania Rani, giovane pianista polacca, Ólafur Arnalds, musicista e compositore islandese. E poi i britannici Max Richter e Brian Eno. Infine Zack Hemsey, musicista statunitense che ha composto molto per il cinema.
Paolo dei Lupi ha anche una sua original track dal titolo “Borther Wolf” composta appositamente da Hannah Fredsgaard-Jones, cantautrice danese conosciuta con il nome d’arte di Asthmatic Harp, che ha lavorato sulle parole delle poesie di Paolo Barrasso “Fratello Lupo” ed “E non lo sapevo” e ne ha tratto ispirazione per il testo della sua canzone che potrà essere ascoltata presto su YouTube.
Dopo questo debutto abruzzese dove si potrà ascoltare ancora la storia di Paolo dei lupi? Hai già altre date confermate?
Ce ne saranno diverse in Abruzzo, in particolare per le scuole e quindi per bambini e ragazzi. Anche per il pubblico adulto ci saranno altre occasioni, ma sono ancora tutte da confermare. Sicuramente saremo nelle Marche, al Teatro San Filippo Neri di San Benedetto del Tronto, il 12 gennaio prossimo e, in primavera/estate, ci attendono appuntamenti importanti dei quali però non posso anticipare niente. Per restare aggiornati è possibile seguirci sui nostri canali ufficiali dove a breve pubblicheremo le prossime date.