Adagiato lungo le pendici di un colle, ai piedi della “Grande Madre”, la Majella, tra i fiumi Sangro e Aventino, sorge il borgo medioevale di Roccascalegna. Spicca, dominando in tutta la sua maestosità, immerso tra boschi di macchia mediterranea, uliveti e querce, la ieratica sagoma di un magnifico castello costruito su uno sperone di roccia calcarea
di Nicoletta Travaglini, foto Paolo Jammarrone
Tra le tante leggende che aleggiano intorno alla fondazione del borgo, la più famosa di queste racconta che i cittadini di Amnium, città romana fondata intorno al 300 a.C. vicino al fiume Sangro, per sottrarsi alle continue incursioni di pirati e banditi, si trasferirono verso l’interno dando vita a diversi villaggi, tra cui Roccascalegna.
La tradizione popolare vuole che i “fantasmi” degli antichi abitanti di Aminium vaghino ancora nei territori bagnati dal fiume Sangro.
L’etimo di Roccascalegna, secondo alcune fonti, deriva dal nome proprio di un nobile longobardo, “Aschari”; secondo altri, dal termine “Scarenna”, ovvero fianco scosceso di una montagna.
La trasmissione di memorie vuole invece che il nome derivi dal fatto che, per accedere alla torre del castello, vi fosse in passato una scala di legno, come riportato sullo stemma del paese. Roccascalegna era delimitata in passato da due porte d’accesso, “Porta del Forno” e “Porta della Terra”. Attraverso la prima, così chiamata perché posta nelle vicinanze di un forno, oggi si accede al borgo vero e proprio.
La parte antica di questo meraviglioso angolo d’Abruzzo si sviluppa ai piedi della roccia calcarea alla cui sommità svetta il maestoso castello a cui è legato “un misterioso fatto di sangue”. Sulle origini del maniero non vi sono elementi precisi, ma dalle fonti storiche si ne deduce che esistesse già nel XIV sec.
Alcuni studiosi sostengono che, durante le lotte Bizantino-Longobarde, a cavallo del V e VI secolo d.C., i Longobardi, prediligendo le alture, si stanziarono sulla roccia dove oggi sorge il castello, fortificandola. Il luogo fu scelto poiché era al centro di un collegamento tra le varie postazioni longobarde, le cosiddette “Fare”.
Il Castello di Roccascalegna, durante la sua lunga e tormentata storia, è stato poco abitato ed ha avuto nel tempo poche e limitate trasformazioni. Il primo proprietario fu un certo Annichino de Annichinis, soldato di ventura tedesco, giunto in Abruzzo al seguito del feudatario Giacomo Caldora, che gli regalò il feudo di Roccascalegna come riconoscenza per i servigi resigli.
I suoi discendenti, Raimondo, Alfonso e Giovanni Maria, furono così abili e scaltri che nel tempo arrivarono a possedere ben quindici feudi. Malauguratamente, Giovanni Maria, nonostante la sua lunga esperienza politica e i suoi interventi di manutenzione ed adeguamento del castello alla difesa dalle armi da fuoco, si macchiò, secondo le fonti storiche, di diverse colpe, tra cui l’assassinio di un nobile, la complicità più o meno palese con i francesi, l’odio evidente nei confronti del re Carlo V e la sua stretta relazione con i feudatari Riccio di Lanciano che, nel 1528, gli fecero perdere sia il titolo nobiliare, sia il feudo, che passò nelle mani dei Carafa di Napoli.
Questi, a loro volta, lo persero allorché un certo Orazio, sempre secondo le fonti storiche, in seguito all’applicazione di “leggi ingiuste e lesive”, fu trucidato dagli abitanti di Roccascalegna nel 1584.
Così il feudo tornò nelle mani del Regio Demanio per essere poi acquistato, per alcune migliaia di scudi, dalla famiglia De Corvis di Sulmona. La “vox populi” vuole che un membro di questa famiglia fu coinvolto anch’esso in un fatto di sangue accaduto tra le mura del castello, segnando per sempre la vita di questa comunità. Nel 1599 il barone Vincenzo Corvi acquistò il maniero per diecimila ducati. A questi successero Annibale, quindi Giuseppe, e da questi si passò a Giovanni Battista; poi fu la volta di Annibale III; successivamente il feudo finì nelle mani di Pompeo, e alla fine Pompeo Filippo lo vendette a un aristocratico di Palena, don Nicolò Nanni, e così si chiuse la parentesi dei baroni De Corvis di Sulmona.
I Nanni, imparentati con i Croce, la gloriosa famiglia che diede i natali al famoso filosofo e statista Benedetto, acquistarono il feudo nella prima metà del 1700, ma in breve tempo esso fu abbandonato ed infine chiuso.
I proprietari del castello si trasferirono quindi in un palazzo baronale al centro del paese, oggi adibito ad abitazione privata. I Croce-Nanni, come d’altronde tutti i signori del castello, ebbero un atteggiamento autoritario nei confronti dei loro sudditi, arrivando, in alcuni casi, anche a macchiarsi di un crimine nei confronti di un uomo di chiesa. Infatti, durante la settimana Santa del 1720, come atto dimostrativo nei confronti dei riottosi abitanti del feudo, il fratello del barone legò lo sventuato parroco della chiesa di san Pietro a una colonna della stessa, causandone la morte, dopo lunghe sevizie iniziate il giovedì Santo e durate fino al sabato.
Durante il Brigantaggio il maniero, oramai decadente, fu sede della Guardia Nazionale e addirittura durante le due guerre mondiali diede “asilo” a ogni sorta di personaggi e malfattori. Rimase proprietà dei Croce-Nanni fino agli inizi degli anni ‘80 del novecento, quando fu donato al comune che iniziò una poderosa ed esperta opera di restauro, culminata nell’apertura al pubblico nella seconda metà degli anni ’90.
Il maniero che sovrasta maestosamente il borgo, si raggiunge alla fine di una lunga stradina di gradini scavati nella roccia, alla cui sommità vi sono i resti di un ponte levatoio che serviva come attraversamento del fossato antistante, oltre che ulteriore difesa del castello. Varcato il portone d’ingresso ci si trova su di un grande cortile al cui lato si ammirano i resti della torre crollata.
Di fronte, entrando, c’è la torre di sentinella, poi la torre quadrata, quindi la cappella dedicata al Santo Rosario, sede di una congrega femminile “molto influente” scioltasi tra le due guerre, la torre Angioina, il magazzino, la torre del Carcere e le segrete.
Molte sono le leggende, qualcuna già ricordata in precedenza, che aleggiano intorno a questa rocca. La più famosa narra che nella prima metà del 1600 un certo barone de Corvis, per vessare ancor di più i suoi vassalli, impose loro di “venerare un corvo nero”. Chi rifiutava di genuflettersi al suo cospetto veniva arrestato e gettato nelle segrete, per essere poi “dilaniati dalle spade conficcate nel terreno”. Proprio per questa sua ossessione, il barone fu ribattezzato dal popolo come “Corvo de Corvis”. Altra storia legata a questo personaggio è la legge dello “Ius Primae Noctis”, ovvero “il diritto della prima notte”. Chi si sposava doveva “ricomperare” la propria moglie in base al pagamento di un tassa stabilita dal signore del castello. Chi non poteva riscattare la propria sposa doveva cederla per una notte al barone.
Questa legge determinò la scomunica del barone da parte del sacerdote della vicina chiesa di san Pietro. Lo stesso religioso incitò la folla a ribellarsi. Così il nobile reagì inviando i suoi “sgherri” a intimidire lo stesso, che fu sorpreso mentre cercava di mettersi in salvo e trucidato ai piedi del castello stesso.
Questo episodio fece sì che i sudditi ordissero una congiura contro il barone, per ucciderlo. Un giorno si presentarono dal barone due giovani che volevano sposarsi, ma senza i denari per adempiere allo “Ius primae noctis”. Uno dei due fu pertanto costretto a cedere la donna al barone per una notte. La donna, all’imbrunire, dopo essersi sposata, si recò al castello dove fu condotta dalla servitù nella camera del barone. Ella vi si coricò, ma mentre il barone faceva lo stesso, con un colpo di stiletto… gli spaccò il cuore. Il de Corvis, morente, si appoggio la mano sul cuore nel vano tentativo di fermare il sangue, poi la pose vicino al capezzale del letto, “maledicendo la stirpe della sua assassina”, mentre la folla inferocita assaltava il castello.
La leggenda vuole che in epoche diverse si sia provato più volte a cancellare la “mano di sangue”, ma essa riaffiorava più vermiglia e nitida che mai, finché nel 1940, annata particolarmente piovosa, parte del castello crollò portandosi via anche la camera dove avvenne l’omicidio.
Un’altra leggenda narra che nelle notti di tempesta quando il vento sferza le merlature del mastio e le nubi basse e nere accarezzano la torre, un volo radente di corvi preannuncia il ritorno del barone, che passeggia inquieto per le stanze del suo antico maniero, cercando la pace eterna. td’A