È notorio che il territorio abruzzese è trapunto di luoghi di culto che testimoniano una devozione fortemente radicata in questa regione. Tra di essi bisogna annoverare la grotta, di origine naturale, ove si venera il culto di San Michele Arcangelo proprio ai piedi della collinetta dove sorge il borgo di Liscia, meta ogni anno di molti pellegrini devoti.
di Nicoletta Travaglini
Liscia è un ridente paesino della provincia di Chieti ubicato nell’entroterra di Vasto, nota località balneare del chietino, sulla riva sinistra del fiume Treste, posta tra due lussureggianti colline ammantate da immensi boschi di cerri e roverelle che la incastonano come un preziosissimo diamante tra i monti che una volta erano abitati da antiche popolazioni Frentani e che oggi, invece fanno da confine tra Abruzzo e Molise. Il suo toponimo potrebbe derivare dalla parola “Liscie”, cioè pietre piatte che servivano per la copertura delle case, oppure si riferisce alla grande roccia che oggi si trova al centro del paese formandone la piazza, ma che una volta faceva da cornice per l’incontro di briganti, i quali attraversavano la nostra regione e in alcuni casi vi trovavano anche ricetto. Sembra, quindi, che questo paesino della provincia di Chieti, racchiuda in sé le diverse anime della tradizione dell’Abruzzo, che per la sua conformazione geomorfologia pare abbia fornito rifugio a Pastori, Santi e Briganti. Negli Abruzzi, infatti, la pastorizia con relativa transumanza, è stata praticata da tempi remotissimi. Questa attività si diffuse nel VII secolo a. C., ma già nell’età del bronzo la pastorizia rappresentava l’unica fonte di sostentamento per “l’uomo della Majella”. Essa, dapprima, verticale, cioè ci si spostava dai monti verso le valli, successivamente diventò orizzontale, dopo la pace forzata imposta dai romani, ci si trasferiva dagli Abruzzi verso la Puglia. I pastori e gli armenti si muovevano lungo sentieri chiamati “tratturi”; questi erano vere e proprie autostrade sterrate che si snodavano dall’Aquila fino a Foggia, traboccanti di gente e torme di ovini.
Nel 1447 re Alfonso d’Aragona costituì la “Dogana della Mena delle pecore della Puglia”, con sede a Foggia, con la quale riordinò e riorganizzò questa attività che stava diventando un grande affare commerciale per le casse dello Stato, grazie al pedaggio da pagare. I bracci tratturali più importanti da cui si diramavano altri secondari, erano, oltre al succitato Aquila – Foggia, chiamato tratturo del Re o tratturo Magno, vi erano: Centurelle – Montesecco, Celano – Foggia, Pescaseroli – Candela, Ateleta – Biferno. Questi sentieri erano disseminati di “Pajari”, dei ricoveri per uomini e armenti costruiti con pietra a secco la cui struttura è simile a quello dei Tholos; erano alti circa sei metri, con il tetto a falsa volta, ottenuto attraverso la sovrapposizione ellittica di pietre calcaree non lavorate. Lungo questi sentieri erano nati anche dei templi pagani dedicati alle più disparate divinità, riconducibili, comunque, alle dee dell’abbondanza, come la Grande Madre, divinità femminile universale, creatrice del mondo. Con l’avvento del cristianesimo, attraverso la sua opera di sincretismo, questi luoghi furono riconvertiti in chiese o abbazie. Molti di questi culti erano celebrati in grotte, anfratti o fenditure della montagna; essi, poi, divennero santuari di santi cristiani, in primis la Vergine Maria e San Michele.
Il nome Michele significa, secondo alcune fonti, “Chi come Dio”, altri sostengono che l’etimo del suo nome significhi “Dio Guarisce”; comunque sia, Egli è colui che diffonde la parola di Dio facendola rispettare, a volte, anche in maniera coercitiva; questo Santo rappresenta il tramite tra mondo fisico e metafisico, tra Dio e gli uomini. L’arte sacra lo ha rappresentato con le ali, come la Vittoria alata, con una lucente armatura e con una spada sguainata e una lancia con le quali sconfigge il male identificato con Satana che gli appare sotto forma di drago; a volte porta anche la lunga bacchetta degli ostiari, cioè di coloro che avevano il compito di custodire luoghi sacri; altre volte, invece, viene raffigurato con una bilancia con la quale pesa le anime: le più leggere, – quindi prive di gravi peccati – andranno in Paradiso, quelle appesantite dal peccato saranno condotte all’inferno. L’iconografia Bizantina lo rappresenta come un nobile di corte, a differenza di quella occidentale che lo raffigura come un santo guerriero molto fiero e maestoso, capo delle milizie celesti. Egli è protettore dei commercianti, maestri d’arme, poliziotti, farmacisti, schermidori e fabbricanti di bilance.
Secondo la tradizione orale pare che San Michele, partito da Oriente per sconfiggere il paganesimo, si sia fermato in un bosco nelle vicinanze di Liscia prima di arrivare sul Gargano; tale bosco si ubica intorno a Monte Sorbo, zona che anticamente aveva un’alta densità antropica, come si può rilevare dal notevole materiale archeologico qui rinvenuto e proveniente da tombe italiche.
Sempre in tema di leggenda si narra che un uomo di Palmoli, paesino dell’alto vastese confinante con Liscia, intento a pascolare le mucche vicino al fiume Treste, notò che tutti i giorni un giovane toro si perdeva per poi ritornare alla sera.
Un giorno, però, l’allevatore, incuriosito da tale comportamento misterioso, decise di seguire il suo animale e vide che la vegetazione si apriva, come d’incanto, al suo passaggio come per indicare una direzione da seguire; questo strano percorso lo condusse fino ad una grotta dove vide il toro inginocchiato davanti ad un’immagine lignea di San Michele Arcangelo, la quale fece sgorgare miracolosamente dell’acqua affinché l’uomo si potesse dissetare e riprendersi dalla scoperta per essere testimone di questo evento sovrannaturale.
In memoria di tali eventi accaduti a Liscia, i Marchesi d’Avalos, nel settecento inglobarono la grotta all’interno di una piccola chiesetta, forse, per regolare il grande afflusso dei pellegrini richiamati, qui, dalla devozione popolare all’Arcangelo Michele, culto che si perde nella notte dei tempi.
Al suo interno si trova una statua in legno del Santo che è probabilmente settecentesca ed è un’opera attribuita ad uno scultore napoletano. Sulla destra si può vedere una cavità con una conca naturale che raccoglie l’acqua che cola da alcune curiose formazioni rocciose modellatesi nel corso del tempo attraverso la lenta erosione delle gocce d’acqua che scendono lentamente e continuamente dalla roccia, che poi formano piccole pozze dove i fedeli prendono l’acqua servendosi di un mestolo di rame.
Su di un’altra parete vi sono due bassi cunicoli, che oggi sono stati chiusi ma che in tempi lontani, probabilmente, portavano a degli angusti vani abitati da eremiti. Al centro della grotta vi è un piccolo altare che fa capolino tra due pilastri di origine naturale. All’alba dell’8 maggio, mese dedicato alla Madre di Gesù, da Liscia e da San Buono, dove pare vi sia ostello dove si fermavano i pellegrini che percorrevano l’antica via Francigena, partono due processioni di fedeli e devoti che con il loro passo lento e le loro preghiere scandiscono, separatamente, il tratto di strada che porta al santuario e poco prima di giungervi, le due processioni si riuniscono per poi proseguire insieme. Al loro arrivo si inizia un solenne rito religioso molto emozionante che segna il culmine della celebrazione: i fedeli si recano nella grotta per rendere omaggio al Santo e nello stesso tempo si rinfrescano dopo la faticosa camminata. I fedeli si mettono in fila per bere e per riportare a casa l’acqua prodigiosa; mentre camminano strofinano lungo le pareti della grotta fazzoletti, pezzi di stoffa, mani ed oggetti sacri come segno di devozione al Santo o per ricevere protezione. Dopo le funzioni, i fedeli si riuniscono per fare una piccola passeggiata nel vicino bosco, per poi mangiare la “Ventricina”, tipico salame dell’entroterra vastese, in compagnia di amici e parenti. Questo rituale si ripete anche l’ultimo venerdì di maggio quando arrivano diversi fedeli da Vasto e poi il 29 settembre.