Sarà il teatro Oscar di Milano ad ospitare da martedì 22 a domenica 27 novembre prossimi lo spettacolo Fontamara, tratto dal capolavoro di Ignazio Silone pubblicato inizialmente in Svizzera nel 1933 e solo nel 1945 in Italia, con adattamento e drammaturgia di Francesco Niccolini – premio Silone 2019 per la riscrittura dell’opera siloniana –, la regia di Antonio Silvagni e le musiche originali di Giuseppe Morgante.
Prodotta dal Teatro Stabile d’Abruzzo e dal Teatro Lanciavicchio con la collaborazione del Centro Studi Ignazio Silone e dei comuni di Pescina ed Avezzano, la rappresentazione nel 2019 è stata premiata nell’ambito del Festival Teatrale di Resistenza, Casa Museo Cervi. Vede in scena Angie Cabrera, Stefania Evandro, Alberto Santucci, Rita Scognamiglio e Giacomo Vallozza.
Nella regia di Silvagni l’opera gioca con maestria sul vuoto e l’assenza; il palco è invaso da sedie che però rimangono vuote per quasi tutto lo spettacolo. Si parla di Berardo Viola, il protagonista, ma lui non c’è. Solo cinque cafoni/contadini, immobili, ieratici, lì inchiodati davanti ad un cumulo di terra, forse quella in cui hanno affondato i piedi per tutta la vita. Oppure da quella sono emersi per raccontare di nuovo questa storia, che in un affascinante cortocircuito temporale ha il sapore del passato e insieme del presente.
Muovendosi pochissimo, i cinque attori/cafoni danno voce ad un mondo, ad un paese, ai suoi abitanti e pure ai loro carnefici. Sono pochi ma rappresentano un popolo, e questo si sente sin dalla prima parola. Quasi fosse un’opera sinfonica e corale, raccontano la storia di Fontamara, dei fontamaresi, di Berardo Viola e di Elvira. Le voci dei protagonisti si accavallano con quelle dei personaggi minori; ogni attore acrobaticamente passa da un’identità all’altra. Giuvà, Matalè, il loro figlio, Marietta, Scarpone, e poi il generale Baldissera, Papasisto, Venerdì Santo, Ponzio Pilato, Betta Limona, l’impresario, il cavalier Pelino, don Circostanza, le mogli, i carabinieri, un prete venduto, un sacrestano disperato; un mondo si affolla sul palcoscenico attraverso una partitura ferrea, un’alternanza di presenze e testimonianze.
Perché di testimoni si sta parlando; quasi fossimo di fronte ad un giudice, o forse al Giudizio Universale, sono tutti chiamati a ricostruire quei giorni osceni pieni di vergogna, violenza e disumano accanimento sui più indifesi. Mano a mano che l’intreccio di sviluppa, prendono corpo le storie dei fontamaresi e degli abusi dei poteri forti ai loro danni, con l’ombra incombente del fascismo che si sposa con gli interessi dei latifondisti.
A proposito dei cafoni, Ignazio Silone diceva: «Io so bene che il nome di cafone, nel linguaggio corrente del mio paese, sia della campagna che della città, è ora termine di offesa e dileggio: ma io l’adopero in questo libro nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà più vergogna esso diventerà nome di rispetto, e forse anche di onore».