testo di Ivan Masciovecchio.
Quella dell’azienda agricola Faraone – e della famiglia stessa, che poi le due cose sono inevitabilmente intrecciate come fusti di vite – è una storia che comincia in agro di Giulianova (TE) nel 1916 a seguito del rientro da New York del bisnonno Giovanni. Ad avviarla fu nonno Alfonso che, dopo aver impiantato nel 1930 i primi vigneti di Montepulciano, Sangiovese e Passerina, nel 1945 festeggiò l’arrivo del figlio Giovanni con tanto di bottiglia di vino cotto millesimata, come da tradizione.
Grazie all’impegno ed alla caparbietà del giovane Nino, accanto alla commercializzazione del vino sfuso nel 1970 arrivò la prima bottiglia di Montepulciano d’Abruzzo e nel 1972 anche quella di Trebbiano d’Abruzzo, dimostrando negli anni a seguire tutta la propria lungimiranza ottenendo nel 1983 la prima autorizzazione in Abruzzo alla produzione di spumanti metodo classico; ampliando nel 2000 i possedimenti con l’acquisto di diversi ettari a Collepietro nel territorio di Mosciano Sant’Angelo (TE); e soprattutto, dando il proprio contributo per il riconoscimento nel 2003 della prima DOCG regionale, quella delle Colline Teramane.
La sua prematura scomparsa nel luglio del 2019, oltre a privare il mondo del vino di un autentico precursore che da studioso autodidatta, tra le varie intuizioni, ha avuto il merito di credere fin da subito nelle potenzialità di invecchiamento del Trebbiano d’Abruzzo, ha inevitabilmente accelerato l’ingresso in pianta stabile del figlio Federico, primo (ed unico) della dinastia Faraone con studi enologici sulle spalle, già in azienda dal 2014 ed attualmente responsabile con la moglie Mariangela – ed il piccolo Valerio – della gestione e della produzione enologica, dalla vigna fino in cantina.
Nel solco quindi degli insegnamenti e delle illuminazioni del compianto papà Giovanni, partendo dalla 2020 per proseguire poi con la 2017, 2012, 2006, fino ad arrivare alla 1997, nei giorni scorsi si è tenuta una intensa verticale di cinque annate di Trebbiano d’Abruzzo relative alla linea Le Vigne ed alla riserva Santa Maria dell’Arco; un vero e proprio viaggio emozionale ed emozionante organizzato in collaborazione con la delegazione AIS di Teramo che ha rappresentato anche l’inaugurazione ufficiale della nuova sala degustazione aziendale, prevista originariamente per novembre 2020 e rimandata a causa dell’emergenza sanitaria; un ambiente unico circondato da ampie vetrate e dotato anche di un piccolo camino in grado di trasmettere un intimo senso di casa e convivialità.
Strutturata su due sessioni – una riservata a stampa ed addetti ai lavori, l’altra aperta al pubblico – la serata condotta dai sommelier AIS Massimo Iafrate e Paolo Tamagnini è scivolata via tra l’evocazione di sentori varietali ed i ricordi di colui che sul Trebbiano d’Abruzzo ha scommesso (e vinto) la sua partita, che ad ogni assaggio chiedeva e si domandava sempre quasi con pudore come fosse quel vino realizzato con genuina passione. Un vino (ed un vitigno) storicamente bistrattato, vilipeso, troppo a lungo (ed a torto) considerato di scarsa personalità e capacità di invecchiamento e che da qualche anno a questa parte, grazie anche al lavoro della famiglia Faraone, ha trovato il suo giusto riconoscimento come grande vino nella storia dell’enologia regionale.
Rispecchiando la personalità del suo creatore – la vendemmia 2020 è stata la prima sotto la completa responsabilità di Federico e forse è ancora un po’ presto per trarre un giudizio compiuto del vino, al di là della sua dimensione acida imponente e delle sue note fruttate di susina gialla – le variazioni di Trebbiano d’Abruzzo proposte all’assaggio si sono presentate in generale piuttosto schive, «di poche parole ma dette bene, proprio come succedeva con Nino, dove le cose più belle erano i silenzi davanti al calice» secondo Massimo Iafrate. Di rustica semplicità, ma al contempo di straordinaria versatilità nel tempo, come quadri di Ligabue si sono rivelate poco alla volta, aggiungendo dettagli e sfumature e raccontando della loro compiuta complessità ad ogni singolo assaggio.
Le cinque annate hanno restituito elementi comuni sia nel naso, sia nella bocca, manifestando un’eleganza ed una freschezza diffuse, evidenziando anche «le belle mancanze del Trebbiano d’Abruzzo, che invitano a soffermarsi non tanto sulle assenze di questo o quel sentore varietale, quanto su quel qualcosa di vero che c’è in ogni sorso». Ecco quindi che se il 2017 si è caratterizzato per la «sorprendente opulenza al naso, con aromi di frutta evoluta tendente alla pesca sciroppata, non troppo persistente ma comunque gastronomicamente capace di reggere anche piatti di carne», il 2012 è risultato sicuramente il più criptico della serie, il più misterioso e difficile da interpretare, privo com’è di marcatori di riferimento, timido, chiuso a riccio nella sua eleganza silenziosa, sicuramente il più interessante perché capace di stimolare pensieri e parole inevitabilmente vane.
Così come il 2006, «forse il più elegante della batteria, nella forma e nel contenuto, con percezioni che sanno di antico, di un vino quasi âgée, d’antan», fino al vero e proprio mattatore della serata, il 1997, capace ancora di brillare di luce propria ventiquattro anni dopo la sua vendemmia. Un vino dotato di un’anima solitaria, «che entra prepotente, sfuma verso un distillato e poi si ritrae in silenzio lasciando una profonda sensazione salina». Un Trebbiano d’Abruzzo di straordinario spessore, distonico tra la parte olfattiva e quella gustativa, ma che porta con sé tutto il peso della strada che ha compiuto per arrivare integro fino ai giorni nostri. Che dopo l’assaggio, almeno in chi scrive, ha lasciato il solo rammarico per non essere riuscito a stringere la mano all’artefice di questo autentico balsamo dell’anima. Amarezza mitigata dall’accoglienza genuina della famiglia Faraone e dalla riuscita di serate come questa che si vorrebbe non finissero mai.