testo di Ivan Masciovecchio.
«Di sole intenso, di nuvole veloci, di temporali improvvisi, di vento sferzante, di neve, di freddo, di roccia nuda, di pascoli, di albe incredibili e di tramonti che sanno d’infinito, di storie dure e culture transumanti». Così si annunciano le montagne abruzzesi nel racconto dell’originale percorso culinario su cui poggia il progetto Quote, ideato dallo chef Franco Franciosi nei propri spazi dell’osteria Mammaròssa di Avezzano (AQ) e giunto ieri alla seconda delle quattro tappe complessive, con la proposta di un articolato e sorprendente menù esperienziale incentrato appunto sui sapori della montagna dopo aver affrontato quelli degli altipiani nella serata inaugurale di venerdì 4.
Riduttivo definire semplicemente una cena la sinfonia di undici portate che lo chef marsicano, coadiuvato in cucina dal suo braccio destro Francesco D’Alessandro e da una valida brigata di collaboratori, ha sciorinato una dopo l’altra, abbinando ad ogni singolo piatto il nome di una canzone, di un film, di una suggestione personale, attingendo dal pozzo profondo dei ricordi e del vissuto quotidiano, accompagnando l’uscita delle pietanze in sala con l’ascolto in sottofondo di un brano ad esse ispirato o da esse evocato.
Dal soffio di vento iniziale cantato da Marino Marini al concerto per violino di Vivaldi, passando per il core ‘ngrato di Enrico Caruso, la chitarra di Bill Frisell, il rock degli U2, l’invettiva di Remo Remotti, il metissage di Rachid Taha, l’immensità di Don Backy – con la voce di Johnny Dorelli, però – il libertango di Astor Piazzolla, una colonna sonora straordinariamente suggestiva ha fatto da cassa di risonanza ad un palese coinvolgimento emotivo legato alla bontà del percorso enogastronomico proposto nel piatto e nel bicchiere, rendendo evidente la volontà dello chef di abbattere le barriere culturali e concettuali di un modello di alta ristorazione troppo spesso concentrato cerebralmente ed esclusivamente su tecniche di cottura e sentori-di-non-so-che, restituendo al piacere di stare in tavola anche un aspetto ludico e gioioso.
Calore e accoglienza, autenticità e passione. Franco Franciosi, insieme a tutti coloro che lo sostengono nel suo progetto, a cominciare dalla sorella Daniela – attenta e discreta nella gestione della sala e della mescita dei vini – nella vita ha scelto di fare quello in cui crede: promuovere e scommettere sul proprio territorio e sull’Abruzzo nella sua interezza, facendolo nell’unico modo possibile per un cuoco, ovvero lasciare la parola alle sue creazioni. A fine serata risulterà stremato, ma girare fin dalla mattina per casari ed allevatori alla ricerca del prodotto più fresco, adatto a dare forma e sostanza ai suoi piatti, lo rifarebbe altre cento volte. Sa bene che la Cagliatella o il Pancotto con cicoria selvatica, pecorino e brodo d’agnello o il Raviolo con ricotta e Pera d’Abruzzo – capace di rievocare i profumi del pomodoro fresco lavorato nei pomeriggi d’estate prima di essere messo nelle celebri e celebrate bottiglie – non sarebbero proprio gli stessi senza quel formaggio, quell’erba spontanea, quel taglio di carne.
Il «racconto collettivo e condiviso dell’Abruzzo» da lui proposto non è però chiuso in se stesso, rivolto sterilmente verso il passato. Così la Micischia – la carne essiccata tipica dell’alimentazione agropastorale – abbandona la pecora e prende origine dalla scottona al pascolo, mentre la Fettuccella tirata a mano ed impastata con albume d’uovo e zafferano si accompagna con un ragù leggero di capretto, animale troppo spesso sottovalutato e trascurato a favore dell’onnipresente agnello. Il suo è un colpo d’occhio rotondo che partendo dalle fertili terre marsicane arriva ad abbracciare tutto il Mediterraneo, nutrendosi e contaminandosi dei racconti dei braccianti nordafricani qui giunti per lavorare la terra, dai quali nascono le suggestioni della straordinaria Pecora nella tajine cotta sulla brace con erbe di montagna e spezie del deserto, che boccone dopo boccone, sospinta anche dalle note ribelli di Rachid, ci trasporta emotivamente dal Gran Sasso d’Italia alle montagne marocchine dell’Atlante.
Una lucida visione che attraversa addirittura l’oceano arrivando fino in Patagonia per stringere legami ancestrali con la cucina cilena grazie ad un Curanto d’agnello di clamorosa bontà, capace di unire idealmente il primordiale metodo di cottura mediante pietre riscaldate sepolte in una buca con il nostro tradizionale coppo, restituendo dopo una procedura lunga dieci ore una carne incredibilmente succulenta, contemporaneamente arrostita fuori e lessata all’interno, umida e tenerissima.
Spenta la musica, spazzolati i piatti e scolati i bicchieri, restano le (belle) sensazioni di una serata trascorsa come se si stesse in casa di amici, opportunamente distanziati nel rispetto delle normative anti Covid, ma emotivamente vicini, connessi. Il viaggio all’interno delle infinite e gustose sfumature della terra d’Abruzzo non è ancora concluso, però. In programma restano gli appuntamenti di venerdì 18 settembre quando ci si inoltrerà tra i boschi dei numerosi parchi regionali segnati da fiumi e verdi lingue di pascoli, per giungere infine venerdì 25 settembre davanti all’immensità dell’Adriatico, dove la fantasia dello chef davvero non avrà confini perché, come canterebbe il poeta, «[…] il pensiero come l’oceano non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare, com’è profondo il mare, com’è profondo il mare […]».