Al confine con il Molise, incorniciato da un suggestivo scenario di boschi e di pascoli che si distendono alle falde del monte Pizzuto, s’incontra il piccolo borgo di Schiavi d’Abruzzo, che in antico fu sede di un’importante santuario dei sanniti
testo di Jessica Romano, foto di Giovanni Lattanzi
Il nome sembra legato alla forma latina medievale sclavus che sta per slavo in ricordo di una colonia di genti croate che tra il XIV e il XV secolo dalla costa raggiunge la montagna, ripopolando uno dei più importanti insediamenti italici d’altura. L’aggiunta del nome Abruzzo si è avuta solamente dopo l’Unità d’Italia, con il Regio decreto n.1140 del 22 gennaio 1863. Fin dagli inizi del IX secolo d.C. a Schiavi d’Abruzzo è affidato il ruolo di limes territoriale tra confini di stati differenti: nella bolla di Papa Nicola II del 1059, viene menzionato il paese di Schiavi d’Abruzzo, attribuendo allo stesso monte di Schiavi il valore di spartiacque. Nella tassazione angioina del 1320 il paese risulta sottoposto ad un pesante onere fiscale, indizio positivo che rivela una fiorente economia basata sulla pastorizia transumante. Le segnalazioni riguardanti le vicende del luogo nei secoli successivi sono legate agli eventi della diocesi del Trivento e riportano il borgo come feudo della famiglia Caracciolo dei principi di Sanbuono, dal secolo XVIII alla riforma dei possedimenti terrieri. A pochi chilometri dall’abitato, località Colle della Torre, in posizione dominante la confluenza del torrente Sente con il fiume Trigno, si trova l’area archeologica che racconta le pagine più antiche della storia di Schiavi. Un poderoso muro a blocchi squadrati, in parte ancora visibile, sostiene l’ampio terrazzamento dove sorgono gli edifici di culto circoscrivendo l’area sacra come un recinto che gli antichi chiamavano temenos. Al centro dell’area si trova il tempio maggiore costruito, agli inizi del II sec. a.C. dopo le guerre annibaliche, a testimoniare i buoni rapporti con Roma. Della struttura si conserva l’alto basamento dalle caratteristiche cornici modanate, le cui misure imponenti (m 21×11, alto m 1.79) documentano il gravoso impegno economico profuso per la realizzazione del maestoso tempio. Percorrendo la gradinata, incassata nel lato sud-orientale del podio, si raggiunge l’atrio antistante la cella quadrata dove si trovava il simulacro della divinità. Le lastre di pavimentazione dell’ingresso, detto pronao, conservano le tracce per l’imposta delle quattro colonne sulla fronte e due in corrispondenza delle ante della cella. Di particolare pregio sono i capitelli ionici a quattro facce, incompleti, rinvenuti sul sito e con ogni probabilità relativi alle colonne del pronao. Risale agli inizi del I sec. a.C. la costruzione di un secondo edificio di culto, di dimensioni inferiori rispetto al primo, ma con lo stesso orientamento. Il cosiddetto tempio minore, privo di podio, affianca il precedente e mostra strutture murarie in opera incerta. Il vestibolo presenta quattro colonne in laterizio sulla fronte e un pavimento realizzato con mattoncini allineati di taglio a spina di pesce (opus spicatum) che precede la cella unica sopraelevata a pianta quadrata. Sulla soglia che introduce al sacello un’iscrizione in lingua osca tramanda i nomi del magistrato repubblicano appaltatore dei lavori Ni. Dekitiis Mi. e del costruttore G. Papiis Mitileis. Il vano presenta pareti intonacate ed un pavimento in signino rosso, decorato con tessere bianche disposte a motivi geometrici entro tre riquadri che, a guisa di tappeti, delimitano uno spazio riservato alla base della statua di culto. Nell’area antistante è visibile l’altare rettangolare in muratura, disposto in senso longitudinale e originariamente protetto da una copertura sostenuta da quattro colonne angolari in pietra con capitelli dorici italici. L’uso rituale dell’altare relativo al tempio minore è documentato fino al IV secolo d.C. Il polo di attrazione religiosa ha condizionato la frequentazione del sito nel tempo anche in funzione di centro di aggregazione sociale, economica e culturale del territorio. Il complesso templare interessa solo una parte di un’area archeologica più estesa occupata da una necropoli il cui ambito cronologico è compreso tra il IX sec. a.C. e il periodo romano-imperiale. Nelle sepolture della fase più antica perdura il tradizionale rito dell’inumazione, tipico delle popolazioni italiche. Nel II secolo a.C. viene introdotto un nuovo costume funerario, conseguente alla romanizzazione e indizio di una profonda trasformazione della mentalità e delle ideologie delle popolazioni locali, la cremazione, che consisteva nel bruciare il corpo e nel seppellirne i resti in urne cinerarie, oppure in semplici fossette, o in buche coperte da laterizi. La maggiore ricchezza delle incinerazioni rispetto alle coeve inumazioni lascia pensare che il nuovo rituale, tipicamente romano, sia stato accolto prevalentemente dalle classi più elevate, che si sono distaccate dalle secolari tradizioni indigene per allinearsi ai costumi e alle ideologie dei dominatori romani, nell’intento di vedere così riconosciuto il proprio ruolo preminente nella società. In questa fase, ormai pienamente romana, i familiari del defunto celebravano riti sulla tomba, come la rottura rituale di vasi in argilla e vetro, al rispetto dei quali era affidata la sopravvivenza stessa dell’anima. Dal X al XIV secolo il tempio maggiore funziona come chiesa, all’esterno della quale si sviluppa un’area cimiteriale con sepolture prive di corredo. È questo il momento in cui l’edificio pagano subisce i danni maggiori, perché utilizzato in parte come cava di materiale lapideo. Questa rioccupazione conferma la presenza di un abitato nelle vicinanze, molto probabilmente uno dei casalia in cui si articola il sistema di insediamento locale in pieno medioevo e di cui è erede l’organizzazione per contrade che anche oggi caratterizza la distribuzione abitativa di Schiavi. Alla fase medievale del sito appartengono i resti di una torre, da cui deriva il nome della località, che ha utilizzato come parete frontale un tratto del muro di terrazzamento del santuario sannitico. L’abbandono dell’insediamento medievale è avvenuto dopo la metà del XIV secolo in seguito ad una frana di grosse proporzioni che ha ricoperto l’intera area causando il crollo della torre.