Testo a cura di Alessandra Angelucci, foto di Giancarlo Malandra
Giuliese d’adozione, Procopio rivela con la sua arte un mondo spesso bizzarro e deformato che però altro non è che una visione lucida del reale dipinto sulla tela in tutti i suoi contrasti
Piccolo, luminoso, caotico. Carico di tante tracce che raccontano di lui, dei suoi affetti e di quello che ama realmente fare. Profumo di tempere, quelle che sembrano non morire mai. Libri sparsi ovunque, foto di famiglia e giochi di legno, attraverso cui la mente si perde alla ricerca di una soluzione. E poi la luce, calda, ristoratrice. Quella che avvolge il suo atelier, sito sulla collina di Montone, vicino Mosciano Sant’Angelo. Quella della sua anima d’artista, che tutto vuole osservare con chiarezza e verità.
Pino Procopio – di origini calabresi ma giuliese d’adozione – è infatti un artista molto amato nel panorama italiano. Un artista che, con le sue opere, ha abituato il pubblico ad uno sguardo attento, ironico e pungente, portandolo a riflettere sulle scene di vita della società odierna, come se per la prima volta venissero guardate con una lente d’ingrandimento dal duplice effetto: deformante e svelatore.
Procopio si pone di fronte agli occhi dell’osservatore non solo come un artista dal talento indiscutibile e dall’inconfondibile gestualità pittorica, ma si presenta anche come occhio indiscreto e rivelatore della realtà che, spesso, tutti noi percepiamo soltanto nella manifestazione più effimera e superficiale.
La sua mano intona versi di una poesia tipicamente novecentesca: sciolti e liberi da metriche tradizionali, le cui immagini evocate costruiscono giochi bizzarri sempre nuovi, lontani dai canoni imposti da un modernismo esasperato.
I suoi successi, in Italia e all’estero, trovano radice in quell’acuta irrisione che contraddistingue il suo carattere, come anche il suo personale e tipico tratto pittorico, capace – quest’ultimo – di palesare ciò che all’uomo non è subito noto: sulle tele troneggiano personaggi quotidiani, familiari ma “sformati”, come lui stesso li definisce, poiché finalmente liberi dalle costrizioni vincolanti di una società incombente e spesso soffocante.
Quando si va ad una sua mostra, viene voglia di sedersi in prima fila come spettatori privilegiati delle scene che – si può esserne certi – coglieranno appieno la taciuta verità del vivere contemporaneo: il mondo, così come l’artista lo colora e lo percepisce, non è ovattato, ermetico o camuffato; al contrario, esso irrompe sulle tele in tutte le sue contraddizioni, le sue follie, le improbabili posizioni assunte dai protagonisti, svelando la mano del pittore più realista di un iperrealista. Seduce la realtà ingrandendola, esasperandola, ma ridonandole quella libertà che i personaggi, siano essi reali o miti leggendari, rivendicano a gran voce attraverso il linguaggio del corpo.
Emblematica è la sua idea sull’arte: «L’Artista è un uomo libero. Sia esso scrittore, musicista, poeta, pittore o scultore è sempre un uomo libero in senso assoluto. Lo è anche se costretto, oppresso o rinchiuso e, spesso, come la storia insegna, diventa il Manifesto di un popolo, dando voce a chi voce non ha. Con le proprie idee e con il talento, l’artista contribuisce al respiro del mondo, al soffio poetico che lo muove e che meraviglia».
Con questo animo, negli ultimi tempi, ha rivolto sempre più la sua attenzione ai problemi della realtà attuale, ormai proiettata verso la costituzione di una società multietnica e multiculturale, che lo ha spinto a ripercorrere e a reinterpretare le avventure del famoso burattino di nome Pinocchio, protagonista umanizzato dell’opera collodiana, o quelle del prode e valoroso Odisseo, conosciuto al mondo attraverso il canto del poeta Omero.
Nell’anno 2013, invece, l’artista ha presentato il suo nuovo ciclo pittorico “Intorno al Baobab”, esponendolo per primo nella Galleria “La Riva” di Giulianova: un linguaggio che vola verso una gestualità più dinamica, veloce nel segno, per raccontare l’amore dell’artista per l’Africa e per denunciare l’estinzione di tutti quegli animali che l’occidentalizzazione ha posto nel suo cinico mirino. Rispetto al passato, la presenza figurativa dell’uomo e la pungente chiave di lettura scompaiono. L’uomo occidentale come attore sociale diventa ora esistenza implicita. Non è disegnata apertamente, ma rivive ogni qual volta si denuncia l’estinzione di un leone, di un’antilope, di un elefante. Ogni qual volta si racconta il cuore dell’Africa.
“Notte Maculata”, “Vitale ruggito”, “Umuvyeyi” sono opere che colpiscono per narrazione, gestualità e colore: da una parte la maestosità dell’elefante matriarca, la femmina più anziana del branco che si pone tra i suoi simili come guida, genitrice ed educatrice dei piccoli; dall’altra il suggestivo rituale dell’accoppiamento fra leoni che, alla ferocia iniziale della conquista, sostituiscono la docilità dell’atto riproduttivo; infine, la società matriarcale delle iene, che si impone sulla tela nel momento di cattura di un’antilope, ormai in fin di vita, ma con ancora negli occhi il terrore del primissimo agguato.