Testo di Novella Fattore
A Teramo è custodito il celebre paliotto opera di Nicola da Guardiagrele. Una testimonianza unica e preziosa, massima e sacra espressione dell’arte orafa e scultorea abruzzese del XIV secolo.
Il paliotto di Teramo è uno straordinario lavoro di oreficeria sacra creato da Nicola di Andrea di Pasquale, meglio noto come Nicola da Guardiagrele, dal nome della piccola cittadina dove nacque sul finire del secolo XIV. La creazione di quest’opera si colloca in un momento molto particolare della sua carriera di orefice. Spesso accade che il percorso formativo di un artista, i modelli e le scelte stilistiche siano suscettibili di cambiamenti, evoluzioni, dovuti il più delle volte al contatto con nuovi ambienti culturali. Nicola in questo non fece eccezione. L’artista guardiese fu sempre attivamente pronto a recepire i modelli che da vari ambiti accoglieva. Così, dopo la primissima formazione, volta ai modi della scuola sulmonese, il guardiese aggiunse apporti dall’area veneziana, o dalla Napoli angioina, testa di ponte in Italia della più moderna cultura francese. È questo il “periodo giovanile” di Nicola la cui ultima testimonianza è un capolavoro assoluto come la Croce di Lanciano, realizzata nel 1422. Dopo tale data l’aurifex sembra far perdere le sue tracce, per ricomparire nel 1431 con un bagaglio stilistico e iconografico totalmente rinnovato, inaugurando il periodo della cosiddetta conversione ghibertiana. L’antependium teramano (1433-1448) si inserisce allora in questo percorso quale simbolo di un grande cambiamento, già annunciato con la meravigliosa Croce di Guardiagrele (1431) opera inaugurale della nuova fase che da ora in avanti caratterizzerà tutte le opere di Nicola sino alla sua morte. In sostanza la “conversione” si manifesta nell’uso di modelli iconografici riferibili ad un’unica opera dell’autore fiorentino, la Porta Nord del Battistero di San Giovanni a Firenze, montata entro il 1424. Ciò non deve stupire vista l’eco che la realizzazione di questo capolavoro suscitò in quegli anni; essa generò un vera e propria migrazione di artisti provenienti da tutta Italia verso la città toscana proprio al fine di osservare, studiare e, perché no, copiare il nuovo repertorio proposto dal Ghiberti. Molto probabilmente fra il 1422 e il 1431 anche Nicola intraprese un viaggio in quel luogo con lo stesso obiettivo dando il via tra l’altro, a quegli echi di Lorenzo Ghiberti in Abruzzo, un fenomeno che non morirà con il guardiese ma che ad esso sopravviverà, spesso stancamente, fino alla fine del secolo XV. (Gallo 2008, p. 392-395). Come testimoniatoci dal Necrologio della cattedrale Aprutina, la realizzazione del paliotto di Teramo originò da un evento nefasto, ovvero la messa ad saccomandum di Teramo da parte delle truppe di Lordino che, il 18 luglio 1416, trafugò dal tesoro della cattedrale, oltre a molti altri oggetti preziosi, anche una Tabulam argenteam […] quae erat magni valoris (Palma, 1833).
Probabilmente l’oggetto venne fuso o smembrato visto che oggi non ne abbiamo più traccia; ma la perdita di questo antenato del nostro antependium fu l’occasione che portò subito a realizzarne un altro, affidato al maestro Nicola. In due formelle dell’opera stessa, quella dell’Annunciazione e quella della Deposizione di Cristo, è indicato il periodo di lavorazione del nostro paliotto che fu molto lungo e si distribuì in ben sedici anni, dal 1433 al 1448, che Nicola non dedicò esclusivamente all’opera ma durante i quali ricevette altre numerose commissioni. Il paliotto, che dopo l’ultimo restauro è stato collocato in via definitiva sul moderno altare maggiore, in origine era stato però concepito per essere esposto solo nelle principali festività dell’anno liturgico, in particolare in occasione della festa del patrono di Teramo S. Berardo, il 19 dicembre. Nei restanti periodi dell’anno il prezioso oggetto era riposto nel grande armadio a muro collocato in sagrestia (Pannella, 1890). Ma cerchiamo ora di capire com’è strutturato il manufatto sacro. Il paliotto di Teramo, in virtù della sua funzione, si presenta come una vera e propria tavola mobile del peso di un quintale e mezzo e dalle dimensioni di 117×230 cm, composta da una base di legno di quercia sulla quale sono assemblate le varie componenti in materiale prezioso lavorato; “questi elementi di piccole dimensioni, consoni alla produzione orafa, sono elaborati in scala dilatata e ingrandita al punto di raggiungere dimensioni inusuali e respiro monumentale” (S. Guido, G. Mantella 2008 p.225). Grande complessità caratterizza l’opera dal punto di vista strutturale; essa è composta da 35 formelle ottagonali, ordinate su 4 file di circa 9 ciascuna, entro le quali si sviluppano scene narrative e figure singole in argento sbalzato su un fondo dorato, 22 smalti a losanga traslucidi su basso rilievo, che si incastrano tra i suddetti ottagoni, e 26 triangoli in smalto champlevé a decorazione fitomorfa, disposti a ridosso della cornice esterna, più tutta una serie di piccoli inserti, tra iscrizioni esegetiche e decorazioni. All’interno delle formelle ottagonali e degli smalti romboidali prende forma il complesso programma dottrinale dell’opera incentrato sulla storia della Salvezza. Esso si basa sull’illustrazione di alcuni momenti fondamentali della vita di Cristo, tratti prevalentemente dal Nuovo Testamento, ma anche dai Vangeli apocrifi e arricchito, in alcuni passaggi narrativi, dalla letteratura mistica e da quelle meditationes (Lipinsky 1980) che tanta fortuna ebbero nel secolo XIV. Vi è una prima sezione, che possiamo definire sostanzialmente narrativa, a cui se ne aggiunge un’altra, fondamentalmente iconica, in parte distribuita sugli smalti suddetti e in parte sviluppata nella parte centrale dell’antependium; essa comprende, oltre al meraviglioso Cristo Benedicente, i quattro Evangelisti e i quattro Dottori della Chiesa, rispettivamente alla destra e alla sinistra del Salvatore.