testo e foto di Ivan Masciovecchio.
Una splendida storia di vitivinicoltura. Questo, e molto altro, rappresenta per l’Abruzzo la famiglia Valentini, le cui origini affondano nella terra madre di Loreto Aprutino, in provincia di Pescara, fin dal 1650. Un racconto reso mitico dalla complessa figura di Edoardo Valentini, capace con il suo lavoro di scrivere alcune delle pagine più belle della storia del vino italiano, puntando esclusivamente sulla valorizzazione di vitigni all’epoca ancora poco conosciuti ed apprezzati come Montepulciano e Trebbiano d’Abruzzo.

Nel decimo anniversario dalla sua prematura scomparsa ed in occasione della consegna al figlio Francesco Paolo – al suo fianco in campagna fin dai primi anni ‘80 – del premio “Cangrande Benemerito della Viticoltura”, la Regione Abruzzo ha pensato bene di dedicare a lui e «ad una famiglia che ha fatto tanto per la nostra regione, dimostrandosi interpreti brillanti nel rispetto della terra e dell’onestà verso il consumatore» secondo le parole dell’assessore alle Politiche agricole Dino Pepe, il primo appuntamento istituzionale all’interno del Vinitaly, chiamando a raccolta per una chiacchierata informale alcuni amici che l’hanno conosciuto bene e con il quale hanno condiviso un tratto di vita umana e professionale.
«Leggi i presocratici, i libri di Pasteur, lì troverai il modo con cui faccio vino. Così mi diceva Edoardo – ha ricordato Mauro Defendente Febbrari, endocrinologo e medico personale di Valentini, oltre che di Veronelli –. Era sicuramente una persona impegnativa, ma di quell’impegno che ti riempie la giornata e poi la vita. Donava dolcezza senza manifestarla. Per me è stato un grande privilegio conoscerlo. Ci sono stati due momenti del mio rapporto con lui; una prima fase valutativa e poi quella della complicità. Solo dopo aver superato una serie di ostacoli che lui poneva tra sé e chi intendeva avvicinarlo si poteva accedere alla seconda fase, che era quella, bellissima, dei profondi sorrisi».
Tra le diverse testimonianze, quella di Daniele Cernilli, già direttore del Gambero Rosso e fondatore di Doctor Wine, si è soffermata sul «viticoltore di grande rigore e profondità storica che faceva vino come piaceva a lui, amante della pergola abruzzese perché era il sistema più antico e tradizionale. Aveva convinzioni molto forti e difficilmente contestabili, ma non gli dispiacevano alcuni punti di vista anarchici di Veronelli con il quale ha avuto un rapporto epistolare straordinario».
Come ha ricordato l’enologo Rocco Pasetti, «da autentico precursore dell’enologia abruzzese, Edoardo Valentini ha anticipato teorie e pratiche divenute nel tempo di dominio pubblico, dal concetto di autoctono che gli era proprio, alla fermentazione in legno dei vini bianchi. La mia emozione di oggi è la stessa che provavo quando mi chiamava al telefono per darmi un appuntamento in vigna. Le prime parole che diceva erano: “Ascolta Rocco…”. Io allora aspettavo che mi trasferisse il suo sapere ed invece lui chiedeva attenzione in modo che potessi rispondere alle sue domande; che erano quelle di un uomo saggio, attento conoscitore del mondo agricolo, alla continua ricerca di risposte ai suoi perché».
Per il neo responsabile della guida Vini de L’Espresso Antonio Paolini, «Edoardo era tutto e il contrario di tutto; estremamente orgoglioso, in modo pure violento, ma anche autoironico in maniera altrettanto tagliente. Come nella canzone di Lucio Dalla “Nuvolari”, anche per lui tre più tre faceva sempre sette, ma anche cinque quando c’era da prendersi in giro. Sembrerà strano, ma anche lui aveva un talismano contro i mali. Infatti un giorno lo trovai con un braccialetto di rame che mi mostrò a metà tra la vergogna e il solito orgoglio. Quando ho cominciato a frequentarlo ero molto preoccupato per Francesco Paolo, perché mi sono sempre posto il problema di come dovesse essere vivere con un padre così importante. Per me era come essere il figlio di Freud o di Picasso».
E di come sia stato difficile, soprattutto all’inizio, stargli accanto, Francesco Paolo lo ha raccontato con estrema sincerità ed in punta di voce, pesando le parole e rivelando per la prima volta pubblicamente le origini dell’avvicinamento paterno alla vigna. «Cominciò ad appassionarsi alla campagna fin da giovane, giocando in cantina dall’età di 4/5 anni. Non nella nostra, ma in quella del padre di colei che poi sarebbe diventata la sua futura moglie, cioè mio nonno materno, l’ingegnere architetto Leonardo Palladini, grande appassionato di enologia».
«È stato lui ad insegnargli a fare il vino. Tra loro c’era un rapporto molto intenso forse perché lui vedeva in mio padre il figlio maschio che non aveva e mio padre in lui una sorta di secondo genitore, anche perché non è che col suo andasse molto d’accordo, avendo due caratteri molto forti. Inoltre mio padre aveva proprio un’idiosincrasia per le stanze chiuse, amava la campagna, il sole, la luce e l’aria aperta; quindi il nonno probabimente riaccese in lui la fiammella per quell’antico amore che lo portò ad interrompere la carriera forense, avviandolo alla vinificazione. Anche se lui in effetti cominciò come allevatore di bestiame; strada che dovette abbandonare in quanto non più competitiva a causa dei prezzi sempre più bassi degli animali che arrivavano da fuori regione».
Frugando pudicamente tra i ricordi, quello che è emerso è stato il duplice ritratto di un Edoardo magister vitae e magister vite ovvero del padre maestro di vita, ma anche dell’agricoltore che insegna l’arte ed i segreti della vigna. «Il rapporto con lui sul lavoro è stato sicuramente più facile in quanto tutte le cose che mi diceva erano estremamente chiare, semplici, logiche, lineari. Sapeva spiegare, trasmettere amore e passione in quello che si faceva. Quando è venuto a mancare pensavo di non riuscire ad esserne all’altezza. Dovendo risolvere dei problemi non pensavo con la mia testa, bensì a cosa avrebbe fatto lui per trovare una soluzione. Poi, però, col tempo mi sono reso conto che le conoscenze che avevo erano le sue e quindi sono subentrate in me tranquillità e serenità».
Davanti ad una figura difficile, dotata di grandi sicurezze ma altrettante fragilità, inevitabilmente ben più impegnativo si è rivelato il rapporto tra padre e figlio, abbastanza conflittuale, dove spesso e volentieri si discuteva; anzi, dove almeno una volta al mese si doveva proprio litigare e quando questo non succedeva la cosa sembrava strana ad entrambi. «Lui mi diceva: stai tranquillo, ormai il mestiere lo hai imparato e poi ricordati, se sei sopravvissuto a me, potrai affrontare qualunque altra situazione».
Come scrisse un giornalista quel lontano aprile di dieci anni fa, paradossalmente morendo Edoardo ha lasciato un grande pieno; di ricordi, di vita, di bottiglie di vino passate alla storia. «A me è mancata l’evoluzione di questo rapporto difficile – ha concluso Francesco Paolo con un velo di tristezza nascosto dietro un dolcissimo sorriso –, perché col tempo, io maturando e lui invecchiando, eravamo riusciti a trovare un punto di congiunzione che purtroppo non è durato a lungo. Gli ultimi anni passati insieme sono stati i più belli e i più veri; in quei momenti non c’erano più il padre da un lato ed il figlio dall’altro, ma un rapporto di amicizia e complicità in cui a volte i ruoli si ribaltavano. Questa è stata la conquista più sofferta e difficile, avvenuta alla fine di un percorso lungo e tortuoso, al quale entrambi eravamo sopravvissuti; perché poi le difficoltà non erano solo le mie, ma anche lui con il suo carattere anarchico, individualista e solitario ha dovuto adattarsi a me. Il mio rammarico è che alla sua morte il produttore con i suoi vini ed i suoi insegnamenti è rimasto, ma è l’amico ad essersene andato».