Un viaggio alla scoperta dei legami fra d’Annunzio e la sua terra, attraverso l’opera che più di tutte fu in grado di rappresentare gli aspetti più veri d’Abruzzo
testo di Emiliano Giannetti, foto di Gino di Paolo
E’ appena iniziato l’anno dannunziano. Il 2013 sarà infatti un autentico rincorrersi, in Italia e non solo, di appuntamenti di varia natura che intendono celebrare la figura del grande pescarese, spesso indagandone gli aspetti meno noti. Infatti col termine “dannunziano” possiamo intendere in maniera troppo generica i molteplici aspetti che hanno caratterizzato la vita e le opere – intese qui anche come le iniziative – del poeta pescarese. Certamente una tale ricorrenza è importante ma chi scrive non intende assecondare la facile retorica della celebrazione, favorendo piuttosto la scoperta dei legami che vi sono fra il poeta e la sua terra. Sappiamo, infatti, che fin dall’esperienza editoriale dell’Isaotta Guttadàuro (1886), ideata con Giuseppe Cellini illustratore della rivista La cronaca Bizantina, il poeta pescarese si avvicinò alle arti visive che nelle sue intenzioni dovevano intervenire nelle suggestioni poetiche ampliandone le risonanze fantastiche ed emotive. In questo programma va sottolineato che la grafica non interviene a commento o descrizione della sostanza poetica, ma ne diviene elemento strettamente affine. Da quel momento la scrittura di Gabriele d’Annunzio farà sempre riferimento all’immagine sia pittorica che fotografica, al punto che numerose pagine dei versi e delle prose dovrebbero essere lette tenendo presente il referente figurativo da cui hanno origine. Non di rado d’Annunzio si servì del suo sodalizio con pittori e fotografi affinché gli procurassero le immagini che egli tradusse poi in sequenze poetiche o narrative. Immagini tradotte quindi in versi, in prosa e spesso anche in musica. Unione fra diverse arti che rappresentava il giovanile sogno degli anni del “Cenacolo” di Francavilla. Ma se esiste un’immagine che più di ogni altra è associata all’arte poetica del pescarese, questa è senz’altro La figlia di Iorio che il pittore Francesco Paolo Michetti espose con successo nel 1895 alla prima Biennale di Venezia. Un’immagine, quella di Michetti, che venne concepita dall’artista in maniera teatrale ed a cui il giottesco sfondo della Maiella, silente spettatore delle vicende di Mila di Codra, conferisce quel forte legame con il territorio e la cultura abruzzese che ancora oggi le si riconosce, e in cui, come lo stesso d’Annunzio scrisse «l’anima della nostra terra d’Abruzzo v’è manifestata con una concentrazione mirabile».
È importante sottolineare come proprio grazie alla frequentazione con Michetti e con il suo cenacolo culturale il poeta si sia riappropriato delle proprie origini, ricordi evidentemente sbiaditi durante gli anni di studio al Cicognini, e che caratterizzavano gran parte della produzione giovanile del poeta che, a distanza di otto anni, scriveva all’amico Benigno Palmerio: «Sabato scorso, al tramonto, terminai la Figlia di Iorio che mi sembra la più alta opera da me composta fin qui, profonda e semplice. Ho sentito, scrivendola, le mie radici nella terra natale». Lo stesso Palmerio ricorda come «Gabriele e Francesco Paolo Michetti, in uno sperduto villaggio abruzzese, Tocco Casauria, luogo nativo del grande pittore, avevano visto improvvisamente comparire nella piazza una donna scarmigliata, rincorsa da una torma di mietitori, ebbri di vino, di sole e di carnal desiderio. La scena selvaggia colpì profondamente tanto il pittore che il poeta: e il pittore, com’è noto, ne ricavò di lì a poco la celebre tela che conobbe a Venezia un vero trionfo. Il capolavoro dannunziano cominciò a germogliare in quel giorno stesso».
E di autentico capolavoro si tratta. Una testimonianza esemplare di come la musicalità del verso dannunziano abbia anche una sua componente pittorica. Lo stesso d’Annunzio aveva il vezzo di definirsi talvolta “pittore” ed è significativa la dedica che scrisse, nel 1902, sulla prima edizione della Francesca da Rimini all’amico pittore Adolfo De Carolis: «Al poeta Adolfo fraternamente il pittore Gabriel». La messa in scena de La figlia di Iorio, avvenuta per la prima volta il 2 marzo del 1904 al Teatro Lirico di Milano e di cui conosciamo le tribolate vicissitudini, fu un autentico successo. Ad essa seguirono nuove versioni sia in diversi dialetti locali che gli adattamenti in altre lingue per i palcoscenici europei e sudamericani. Dopo essere stata fissata sulla tela dal Michetti, questa vicenda di chiaro stampo verista aveva trovato quindi una sua prima trasfigurazione attraverso il verso classico ed elegante del poeta pescarese che però aveva ben chiara la natura del suo testo teatrale, come scriveva all’amico pittore: «Tutto è nuovo in questa tragedia e tutto è semplice. Tutto è violento e tutto è pacato nello stesso tempo. L’uomo primitivo, nella natura immutabile, parla il linguaggio delle passioni elementari… E qualcosa di omerico si diffonde su certe scene di dolore. Per rappresentare una tale tragedia son necessari attori vergini, pieni di vita raccolta. Perché qui tutto è canto e mimica… Bisogna assolutamente rifiutare ogni falsità teatrale».
Due linguaggi apparentemente lontani ma di fatto complementari ed assolutamente consonanti fra di loro, il cui messaggio raggiunse il pubblico con una straordinaria efficacia. Non è quindi casuale che per la redazione di una partitura musicale su tale soggetto la scelta sia caduta su Alberto Franchetti, compositore verista di stampo wagneriano, il cui lavoro venne rappresentato alla Scala il 29 marzo del 1906. Per questo evento la direzione fu affidata al napoletano Leopoldo Mugnone e la serata fu di quelle davvero importanti. Fra il pubblico c’era lo stesso d’Annunzio e numerosi musicisti di successo come Giacomo Puccini, Francesco Cilea e Franco Alfano. L’esecuzione dell’opera fu apprezzata dal pubblico anche se, forse, non soddisfece completamente tutte le aspettative.
Il motivo è da ricercarsi probabilmente nel lavoro del musicista che, rispettoso del testo del grande poeta, aveva cercato di dare un contributo, come osservò nella sua recensione il critico de La Stampa, sempre «semplice, tenue, fresco dal principio alla fine dell’opera […] pur avendo cura che la musica riuscisse commento efficace non volle mai soverchiasse la parola». Come già era stato per la versione teatrale, che venne immediatamente data alle stampe dai Fratelli Treves arricchita dalle xilografie di Adolfo De Carolis, anche per questa nuova versione musicale l’editore Ricordi fece realizzare una elegantissima edizione a stampa sia del libretto che dello spartito avvalendosi nuovamente del lavoro del grande illustratore dannunziano. Senza considerare i numerosi fregi e decorazioni che arricchiscono quest’edizione musicale, la nostra attenzione si concentrerà sulle tre tavole che introducono ciascun atto nello spartito musicale.
Pur avendo realizzato immagini contenenti informazioni precise sull’ambientazione del dramma, per questa edizione De Carolis indugia nei suoi inserti sui tre personaggi principali della vicenda. Naturalmente la prima immagine è dedicata a Mila di Codra la quale mantiene, come nell’opera michettiana, il caratteristico passo rapido e sicuro che la fa apparire come in procinto di uscire dal dipinto. De Carolis ne aumenta, se vogliamo, la rapidità della camminata accrescendo in tal modo la femminilità delle forme; e a differenza di quanto accade nella tela di Michetti, nella quale la bellezza della figura femminile è nascosta dal pesante manto, nella rappresentazione di De Carolis la donna compie col braccio un ampio gesto che ne rivela anche la bellezza del viso. Questa immagine, a colori, diverrà poi la locandina della rappresentazione scaligera. Una donna più imbarazzata che lusingata dagli sguardi degli uomini che assistono al suo passaggio. Fra di loro c’è il pastore Aligi, il secondo da sinistra nel quadro di Michetti, che il pittore dipinge rapito fuori ogni misura dalla bellezza della donna. Lo stupore e il trasognato stordimento che lo caratterizzano nel dipinto diventano, nella tavola di De Carolis per il secondo atto, angoscia e turbamento, premonitori della tragedia che sta per compiersi. Per l’ultimo atto De Carolis ritrae Ornella, sorella minore di Aligi assente nel capolavoro di Michetti, della quale descrive sapientemente la straziante impotenza di fronte allo svolgersi degli eventi.
Il segno grafico di De Carolis è ricercato, sempre elegante e raffinato e ha ben poco in comune con il violento realismo di quello Michettiano. Ne è una trasfigurazione borghese, borghese come il pubblico che aveva oramai eletto d’Annunzio a proprio beniamino. Non è forse un caso che il 1904, l’anno di pubblicazione de La figlia di Iorio, sia stato anche quello dell’ultimo soggiorno del poeta in Abruzzo – escludendo quello del 1917 per l’ultimo saluto all’amata madre. D’Annunzio era probabilmente consapevole che con la sua “tragedia pastorale” aveva raggiunto un livello difficilmente superabile quanto a drammaticità e forza espressiva nel narrare la sua terra. Ora occorreva lanciarsi in altre esperienze poetiche, ma anche mondane e militari: solo così l’artista sarebbe entrato nel mito.
LA GROTTA DELLA FIGLIA DI IORIO
Le prime visite documentate alla grotta del cavallone risalgono al XVII secolo. Epoca in cui questo luogo impervio e difficilmente raggiungibile aveva creato non poche suggestioni nelle popolazioni locali
Nel 1893 venne costituita la Società delle Grotte del Cavallone e del Bue, con l’intento di valorizzare turisticamente il luogo realizzando un sentiero di accesso scavato nella roccia e collocando nei punti più pericolosi del percorso delle scale in legno. Ma la fama del luogo aumentò considerevolmente quando, agli inizi del ‘900, Gabriele d’Annunzio portò in scena La figlia di Iorio ambientando proprio in questo scenario i momenti più drammatici dell’opera. Da allora la grotta è conosciuta, infatti, anche come la Grotta dalla figlia di Iorio. Aumentarono quindi ben presto il numero dei visitatori e degli studiosi che realizzarono le prime ricognizioni scientifiche come il Bertarelli che per primo ne stimò le reali dimensioni o lo speleologo friulano De Gaspari che nel 1912 compì le prime indagini morfologiche. Utilizzato come rifugio dagli abitanti di Taranta Peligna durante il secondo conflitto mondiale – sono ancora visibili i graffiti lasciati dai rifugiati -, questo luogo così suggestivo rimase per alcuni anni trascurato fino al rinnovato interessare dei visitatori e degli studiosi che rimangono ancora oggi incantati dalle atmosfere di questo angolo nascosto immerso nel cuore del Parco Nazionale della Majella.
GLI AUTORI DELL’OPERA
ADOLFO DE CAROLIS (1874-1928)
Dopo gli anni di studio trascorsi a Bologna si trasferisce a Roma dove inizia la sua attività di decoratore e incisore. Qui entra a far parte del gruppo In Arte Libertas che proponeva un rinnovamento dell’arte attraverso la riscoperta dei grandi del ‘400 fiorentino vicino allo spirito dei preraffaelliti. Nel 1901 si trasferisce a Firenze dove insegna all’Accademia di Belle Arti. Nel capoluogo toscano inizia la collaborazione con numerose riviste nonché la frequentazione con i più importanti artisti ed intellettuali dell’epoca. Come illustratore firma le xilografie per i volumi dei maggiori letterati del tempo tra cui Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli e Gabriele d’Annunzio a cui sarà legato da fraterna amicizia. Ricordiamo le illustrazioni per Francesca da Rimini, La figlia di Iorio, La fiaccola sotto il moggio, Fedra, Elegie romane, Notturno. Per l’amico realizzò anche le celebri xilografie in cui sono resi graficamente quei motti con cui il poeta amava sottolineare alcuni momenti della sua vita. Anche la firma de Karolis, che troviamo spesso nelle sue illustrazioni, è un’idea del vate.
ALBERTO FRANCHETTI (1860-1942)
Avviato alla musica dalla madre termina gli studi in Germania studiando al Conservatorio di Monaco e poi di Dresda dove si distinse per lo spiccato talento. Nel 1888 ottenne il primo importante successo con l’opera Asrael che venne immediatamente ripresa nei principali teatri italiani e stranieri. Seguirono poi Cristoforo Colombo, Fior d’alpe, Il signor di Pourceaugnac. Un autentico successo riscosse nel 1902 alla Scala di Milano Germania, su libretto di Illica e diretta da Toscanini. Quattro anni dopo seguì un altro importante debutto scaligero con La figlia di Iorio scritta sul libretto dello stesso d’Annunzio. Raffinato orchestratore tentò di rinnovare il linguaggio del melodramma italiano fondendo l’ideale wagneriano con l’estetica verista.