La chiesa medievale di San Pietro Apostolo nel comune di Rocca di Botte – Frazione di Pereto – è di recente assurta alla cronaca per la devastazione e il furto avvenuti nella notte del 2 febbraio 2010 di una cospicua parte degli arredi sacri interni, in particolare dell’ambone e del ciborio
testo e foto di Aldo Giorgio Pezzi e Stefano Cecamore
A poco più di un anno dall’accaduto, il loro mancato ritrovamento acuisce l’amarezza per la perdita di uno dei tasselli fondamentali del patrimonio artistico abruzzese che, aggiungendosi ai danni subiti alcuni anni fa dalla chiesa di San Pietro ad Alba Fucens, registra un ulteriore impoverimento delle testimonianze di quella che Ignazio Carlo Gavini definiva la scuola Romano-Marsicana nella sua notevole Storia dell’architettura in Abruzzo, edita fra il 1927 e il 1928 ma per molti versi ancora attuale e attendibile. Scuola formata da un gruppo di artigiani che all’inizio del XIII secolo cercava, secondo lo storico romano, di “impossessarsi dell’uso del musaico per arricchire i suoi monumenti e introdurlo come elemento di animazione in mezzo alla sua scultura fantastica”. Dei pochi manufatti cui gli studiosi riconducono questa corrente artistica (tra cui si annoverano gli arredi delle chiese di San Pietro ad Alba Fucens, di San Nicola a Corcumello e di San Cesidio a Trasacco) l’ambone di Rocca di Botte (Aq) rappresentava forse la testimonianza più significativa della fusione tra modalità esecutive delle suppellettili abruzzesi dell’epoca e tecnica musiva coeva dei marmorari romani. Il suo impianto generale, con cassa a base rettangolare poggiante su colonne e capitelli a foglia d’acanto, si accomuna agli esempi più tipici della produzione abruzzese del XII secolo; al contempo, se ne distacca per la caratterizzazione della base attica con dei leoni stilofori nelle colonne anteriori, oltre che per la decorazione della balaustra e del lettorino, che risente chiaramente dell’influsso della scuola romana di derivazione cosmatesca di area campano-laziale. Proprio i plutei, che costituivano uno dei vertici raggiunti dalla cosiddetta scuola Romano-Marsicana, risultano danneggiati; scomparse poi le colonnine tortili a seguito del furto di cui si è detto. Se infatti basi, colonne, capitelli, mensole e cornici ricalcano nella caratterizzazione scultorea l’opera degli intagliatori marsicani riconoscibile anche a Santa Giusta di Bazzano, a San Giovanni Evangelista di Celano e a Santa Maria di Luco, nell’uso del collarino a tortiglione e nel movimento delle foglie di palma visibili nella colonna anteriore sinistra dell’ambone di Rocca di Botte, i davanzali presentano pilastri angolari, tamponamenti e colonne spiraliformi che si distaccano dalla matrice casauriense per la decorazione a tessere multicolori, presente anche nell’ambone di San Pietro ad Alba Fucens, a sua volta da considerare a buona ragione primo esempio dell’assimilazione dell’arte cosmatesca in Abruzzo. L’impossibilità di attribuire l’opera ad un autore certo – come avviene invece negli arredi di Albe, legati al nome di Andrea magister romanus – lascia spazio al dibattito sulla datazione e la realizzazione dell’ambone e del ciborio di Rocca di Botte, eseguiti probabilmente da maestranze locali intorno alla prima metà del XIII secolo a conclusione dei lavori di trasformazione della chiesa di San Pietro Apostolo, avviati, secondo il latinista carseolano Giacinto de Vecchi Pieralice, un secolo prima per volontà di Adelgrima, contessa dei Marsi. Sua probabilmente l’immagine di Dama ritratta nell’atto di offrire la chiesa a San Pietro nei pochi resti pittorici ancora leggibili nel portico, ultima testimonianza di un ciclo musivo più ampio che, secondo la tradizione orale, si dispiegava in una processione di santi, martiri e angeli lungo la navata centrale.
L’attuale chiesa ricalca sostanzialmente quella di origine benedettina, con tre navate e una piccola abside semicircolare a conclusione di quella centrale; allo stesso periodo è possibile ricondurre l’aggiunta del portico sulla facciata principale e la costruzione del campanile impostato sul profilo di un endonartece ascrivibile ad un impianto anteriore a quello dell’XI secolo; un nucleo originario comprendente, secondo gli storici locali, anche un monastero. Nel XIV secolo la revisione dei sistemi di copertura contempla l’inserimento di strutture voltate, rette da archi a sesto acuto nella navata sinistra e a tutto sesto nella destra, oltre la modifica delle murature della navata centrale innalzate per consentirne l’illuminazione diretta. Il cedimento, nel 1873, della volta a camera a canna impostata su falsi pilastri, apre una lunga parentesi di degrado ed abbandono della fabbrica; dalle lettere di Giacinto de Vecchi Pieralice, allora ispettore onorario ai monumenti e scavi per il territorio di Carsoli e in constante contatto con la Direzione Generale Antichità e Belle Arti in seno al Ministero della Pubblica Istruzione, si apprende come il pulpito a mosaico della chiesa “esposto al nudo cielo” venga preservato tramite la realizzazione di una semplice tettoia in legno, ma come contemporaneamente i tempi della macchina burocratica per l’approvazione della costruzione di una nuova copertura si dilunghino al punto che “quando poi verrà l’ordine di por mano ai lavori, le pitture logorate dalle piogge e dai geli, saranno scomparse per sempre”. Una nuova copertura viene impostata solo nel 1894 e risulta oggi sostituita da capriate in cemento armato rivestite con tavole di legno, realizzazione della seconda metà del secolo scorso. Va a questo proposito rilevato che la tendenza a dissimulare i materiali moderni, conferendogli anche un aspetto il più possibile simile a quelli tradizionali, aveva già caratterizzato gli interventi di consolidamento della chiesa e del campanile attuati dal soprintendente all’Arte Medievale e Moderna per l’Abruzzo Armando Venè, negli anni Venti del Novecento.