Ubicati a San Valentino in Abruzzo Citeriore, l’uno all’interno del nucleo cittadino e l’altra in località Cannafischia, presentano entrambi un impianto a corte centrale che costituisce un’eccezione nel panorama dell’edilizia tradizionale locale
testo e foto Stefano Cecamore
Il palazzo posto a chiusura dell’abitato in prossimità di Largo San Nicola è il probabile risultato dell’accorpamento di più cellule elementari fuse, sul finire del XIX secolo, in un unico organismo in risposta alle sopraggiunte esigenze di rappresentanza della nuova classe dirigente. L’edificio, strutturato in due corpi di fabbrica collegati da un’ala trasversale arretrata, trova nobilitazione nell’impianto volumetrico giocato sull’accostamento di basamento, terrazza e blocco compatto con corte centrale che segue il naturale declivio del sito tra corso Umberto I e via Duca degli Abruzzi. Anche l’impaginato esterno introduce elementi di innovazione rispetto al tessuto cittadino circostante: il prospetto principale, organizzato in due registri, appare linearmente definito da lesene, fasce marcapiano e cornici e permette l’accesso diretto al livello residenziale tramite un portale bugnato sovrastato da una balconata su mensole. Sul fronte opposto una lunga teoria di arcate in conci lapidei alternate a paraste bugnate definisce il corpo di fabbrica coperto a terrazza che, colmando il dislivello del terreno, eleva l’edificio rispetto all’asse stradale antistante. L’arco con coronamento a fastigio e l’ampia cancellata d’accesso definiscono il perimetro dell’impianto originario, alterato dall’inserimento di locali commerciali, piccoli volumi di servizio e un distributore di benzina. Versa invece in totale stato di abbandono la villa, costruita intorno alla seconda metà del XIX secolo; distribuita intorno ad una corte centrale, è posta in asse con un ampio bacino d’acqua, utilizzato probabilmente per l’approvvigionamento idrico e per le pratiche agricole o forse funzionale alla vocazione di “villa di delizie” cui l’edificio sembrerebbe destinato in base alla dicitura di “casino di villeggiatura” riportata nella Revisione Generale del Catasto del 1890. L’impianto generale si discosta, infatti, da quello del tradizionale edificio rurale – due livelli indipendenti sovrapposti, il primo destinato alle derrate e al bestiame e il secondo, accessibile tramite una scala esterna, con funzione residenziale – ricalcando invece la tipologia di palazzo a corte organizzato simmetricamente rispetto ad un asse centrale e servito da due rampe interne. Gli ambienti rigorosamente speculari tra loro si articolano in quattordici vani per piano coperti, al primo livello, da volte a botte lunettata ribassata, volte a vela e a crociera; al secondo livello da volte a padiglione realizzate con apparecchio di mattoni in foglio. La muratura portante, ormai priva dell’intonaco originario, rivela un paramento in bozze lapidee disposte in corsi ad andamento sub-orizzontale con zeppe e scapoli di rinforzo, confermando il perpetuarsi di tecniche costruttive e materiali tradizionali e il ricorso ad un linguaggio formale che accomuna edilizia minore ed edifici di rappresentanza. L’apparato decorativo, in gran parte perso a seguito dei crolli di coperture e solai, risulta in parte leggibile sui fronti esterni inquadrati geometricamente da lesene a tutta altezza concluse da capitelli e festoni di ispirazione rinascimentale, oltre che da fasce marcapiano che delimitano campi di muratura sui quali si aprono finestre con profilo a sesto ribassato definiti da conci squadrati e cornici inginocchiate su mensole. L’attuale condizione di rudere, dovuta ai numerosi frazionamenti della proprietà e alla conseguente mancanza di manutenzione (che ha portato allo svulippo di una fitta vegetazione che ne rende difficile la percezione), rischiano di compromettere inevitabilmente il recupero di una struttura di innegabile fascino, pietra miliare della locale storia d’architettura.