È difficile che il paese medievale venga raggiunto in quanto si è di passaggio; vi si arriva soprattutto perchè obiettivo di una escursione fuori dal tempo, in cui l’orologio della storia si è fermato non per negare la modernità, ma per riflettere sulle storture di essa. Per questo gli antidoti contro lo stress sembrano albergare nell’antico borgo nato su “un mucchio di pietre dorate”, in cui arte, cultura e soprattutto musica dettano i ritmi di quello che dovrebbe essere la contemporaneità, rea spesso di lasciarsi andare in una corsa senza meta…
testo di William di Marco
Le tracce di Morro d’Oro, come località abitata, si perdono nella notte dei tempi. Le recenti scoperte di resti romani come anfore, monete, una statuina in bronzo della dea Diana, una villa e piccole superficie di pavimentazioni a mattoni, ci potrebbero far proiettare storicamente il borgo in un periodo molto antico, se non addirittura protostorico, in base anche alla presenza di altri siti archeologici della zona. Tuttavia, rimanendo ai documenti certi, quelli che d’altronde delineano i percorsi storici, si può affermare che le prime notizie possono essere datate nell’XI secolo, con il riferimento di Leone orsicano (1050 ca.-1115) che cita la donazione di cinque chiese all’abbazia di Montecassino (1012), tra le quali la “Sancta Victoria in Murro”. È il primo elemento toponomastico che ci porta dritto verso il nome di Morro (che deriverebbe da “mucchio di pietre”), anche se di passaggi il nome ne ebbe diversi, come Moro, Murrum, Murum, Morra. L’aggiunta della specificazione “d’Oro” si ebbe nel periodo appena dopo l’Unità d’Italia, esattamente nel 1862, quando con un’apposita circolare del Ministero dell’Interno, che invitava ad articolare meglio il nome di alcune località che potevano essere confuse con altre, il Consiglio Comunale modificò l’appellativo, ratificato con il Regio Decreto n° 1616 del 13 dicembre 1863. Il riferimento al metallo prezioso era dovuto quasi sicuramente alle distese dorate di grano della sottostante pianura, ma potrebbe anche essere la conseguenza del colore che riflette il costone del borgo, nelle giornate in cui lo stesso è irradiato dai raggi del sole, quando si evidenzia una piacevole doratura d’insieme.
Ancor prima dell’anno Mille (VI-VIII secolo), Morro era stato possesso del Ducato longobardo di Spoleto, per passare dal XII secolo al normanno Ducato di Puglia. Altri cenni di storia locale li troviamo nelle concessioni fatte nel 1128 dal vescovo aprutino Guido II e nel 1270 dal re Carlo I d’Angiò. Il passaggio del borgo ai Duchi d’Acquaviva di Atri si ha nel 1276, quando Gualtieri sposa Isabella di Bellante che porterà in dote l’università morrese. Gli Acquaviva rimarranno proprietari di Morro fino al 1757, momento in cui la stessa passò alla Regia corte dello Stato di Atri. Sono anni difficili per il piccolo borgo che, se nel corso del XVI secolo era cresciuto, nei secoli successivi diminuirà i propri abitanti (raggruppati in “fuochi” intesi come nuclei familiari), per giungere alla nefasta carestia del 1817, dove su una popolazione di 1.300 individui, ne morirono oltre il 10% (143).
All’inizio dell’800, sotto il profilo amministrativo, Morro fu prima abbinata a Notaresco fino al 1806 e l’anno successivo le sue sorti furono legate a quelle di Montepagano. Ma da lì a poco il paese si svincolò per essere gestito autonomamente.
Giungere a Morro d’Oro è come arrivare in capo al mondo, in cui la strada magicamente finisce per consegnare il senso della vita al meravigliato viandante. Il sogno di ogni viaggiatore è cercare la pietra filosofale delle proprie esplorazioni, il punto d’arrivo che appaga l’esistenza e dà senso al tragitto di conquista terrena. Chi percorreva nei secoli passati i sentieri di montagna, di collina o quelli posti nei pressi del mare, sapeva da dove partiva, però spesso non conosceva dove sarebbe arrivato. Così era il peregrinaggio nell’antichità e raggiungere la meta – qualsiasi essa fosse, dislocata anche nei punti più sperduti dei monti aprutini – rappresentava la gioia del viaggio, la chiusura del cerchio dei podisti del tempo.
Morro d’Oro in un certo senso è tutto questo: nell’arrivarci si ha prima l’appagamento di percorrere i sentieri dell’asfalto ingrigito dal tempo in cui la segmentata linea bianca ci ricollega alla modernità della vita; poi si agguanta un senso di soddisfazione per l’obiettivo raggiunto, tanto è fuori dal comune. Il suggestivo viale alberato che dalla Strada Provinciale 22 s’inerpica fino sopra il borgo posto a 210 m, si arresta davanti la spazialità ordinata e pulita di piazza Duca degli Abruzzi: qui la via da percorrere finisce sotto i nostri piedi e la meta è concretamente visibile ed empirica. Non è posta ai lati di una strada qualsiasi, quelle che fanno sentire il viaggiatore come se fosse passeggero di un treno che attraversa le stazioni, guarda le città dal finestrino e le vede scorrere, impossibilitato com’è di giungere nel luogo dove i binari finiscono l’infinito srotolamento. Quasi tutti gli altri paesi in questo sono molto prevedibili: molto è scontato nella loro urbanistica, come se fossero delle specie di atlanti geografici all’aperto, delle guide in cui la storia passa di fianco, ma non si ha modo di fermarla. In tali luoghi le strade camminano da sole, affamate di siti, di viali, di piazze in successione e tutto il reticolato di vie s’intreccia, senza che si possa individuare il topos d’arrivo. Invece, la località che si formò su un “mucchio di pietre dorate”, se solo fosse stata conosciuta da Italo Calvino, sarebbe con molta probabilità divenuta l’ispirazione del racconto in cui il punto d’arrivo era un invocato giardino: in tal caso si sarebbe parlato, per l’autore di Fiabe italiane, di un “borgo incantato”, dove il tempo sembra fermarsi, dove chi ci arriva è perché lo vuole, dove chi vi approda lo fa per respirarne la storia.
Non quella dei fasti o delle battaglie dei libri accademici, ma “solo” quella del chronos, che qui ha spazzato via i ritmi infernali dell’impazzita frenesia umana, sempre più alla rincorsa di “quel qualcosa che non si sa cosa sia”. Certamente “quel qualcosa” è anche capace di dare energia all’uomo, ma ha pure la forza di farlo smarrire. Forse proprio per questo il viandante dell’esistenza dovrebbe conoscere Morro d’Oro e le sue chiese.
Chiesa di San Salvatore.
Costruita nel 1331 da Gentile da Ripatransone, la chiesa di San Salvatore è la più importante del centro abitato e fa bella mostra di sé, in tutta la sua imponenza, proprio lungo la piazza Duca degli Abruzzi, recentemente pavimentata con sapienza. La facciata è seicentesca ed ha al centro un portale in pietra a timpano con mensola e cornici modanate. Anche il fianco destro è interessante per l’esistenza di un portale ridotto, sempre in pietra, e quattro monofore ad archetto con motivi decorati. L’interno è veramente suggestivo, con tre navate divise da pilastri quadrati che danno slancio alla pianta rettangolare. Fanno bella mostra un altare ligneo barocco, una pregevole Madonna in terracotta policroma (mutila), due altari barocchi sul lato sinistro risalenti al XVI-XVII secolo, una statua lignea di San Berardino da Siena. Sulla parete di fondo è posto un organo costruito da Adriano Redi di Atri. Sul lato posteriore svetta il campanile a vela.
Da non tralasciare la visita alla chiesa di Sant’Antonio, che era considerata la più antica, nonchè “il castello”, vale a dire il nucleo originario dove intorno sorse il paese. Il luogo di culto risalirebbe al X secolo, anche se nel corso degli anni ha subito diverse ristrutturazioni, tra le quali la più importante nel XIX secolo ad opera degli allora proprietari, la famiglia Ettorre.