testo di Ivan Masciovecchio.
«La mia pasta l’ha assaggiata perfino San Pietro!». Quando ci siamo conosciuti una decina d’anni fa esordì proprio così Nicola Di Lallo, mugnaio e mastro pastaio di quarta generazione, scomparso mercoledì scorso all’ospedale di Vasto all’età di 81 anni. Mani segnate dalla fatica, sguardo ironico e profondo e la battuta sempre pronta, è stato uno dei principali interpreti della cucina popolare frentana, custode autentico delle tradizioni familiari e indiscusso maestro nell’arte antica della pasta alla mugnaia (li maccherune a mane), ottenuta dalla lavorazione manuale di un unico, ininterrotto cordone di pasta del diametro simile ad una tagliatella irregolare e dalla lunghezza variabile.
Pioveva e faceva freddo quando lo raggiunsi insieme ad amici per una intervista nella sua casa di Paglieta, in provincia di Chieti. A tal proposito ringrazio l’ex direttore editoriale della rivista con la quale collaboravo allora, Gaetano Carboni, per consentire oggi la ripubblicazione di parte del racconto di quella serata meravigliosa e irripetibile. Sebbene normalmente lavorasse solo a domicilio portando sempre con sé tutta l’attrezzatura – all’epoca riceveva ancora una cinquantina di richieste l’anno –, grazie anche a quegli intrecci particolari che solo il destino sa regalare avemmo il privilegio di assistere alla sua performance all’interno dell’abitazione privata con mulino annesso, proprio là dove il giovane Nicolino imparò fin da ragazzino ad avere letteralmente le mani in pasta.
«Era il 1958, avevo 16 anni – mi raccontò –. Io facevo l’impasto e mio padre l’allungava. Guardando lui ho cominciato a prendere confidenza con una certa gestualità. Oltre a noi c’era anche Bruno, mio fratello più piccolo, ed un vecchietto di Paglieta già esperto, che la moglie portava qui altrimenti se ne sarebbe andato alla cantina a bere tutto il giorno. È con lui che ho cominciato ad andare in giro a fare le dimostrazioni perché mio padre non si è mai mosso da casa». In soggiorno Marta e Silvia ascoltavano distrattamente le parole del nonno, mentre con gli occhi seguivano un cartone in tv.
Sul tavolo, la spianatora di legno era già predisposta. «Tutto dipende dall’impasto – riprese Nicola, mentre grazie al movimento circolare delle sue mani rugose cominciò a dar vita al serpentone di pasta – che deve essere omogeneo, elastico, gommoso e mantenuto sempre al giusto grado di umidità. Anche per questo, per essere sicuro della resa, utilizzo una varietà di grano tenero che semino e macino io, il Bolero. Ma anche con il mio stesso prodotto il risultato non è mai uguale perché, ad esempio, con il caldo la pasta si rilassa, si lascia allungare che è una meraviglia mentre in questo periodo mi sta facendo passare i guai». Era una conoscenza empirica quella di Nicola, che non prevedeva formule e misurini, basata su una pratica pluriennale e su quel colpo d’occhio rotondo forgiato dall’esperienza che fa capire subito quando la pasta, durante la lavorazione, è in grado di dare davvero soddisfazioni.
Sbirciando gli attrezzi, tra forchette, forchettoni, setaccio, pentole e pentolini, coltelli, paletta e vassoio, faceva bella mostra di sé anche una spugna. Serviva ad inumidire il tavolo da lavoro. «Per farlo utilizzo l’acqua, ma devo provare con il vino – mi disse sornione il mastro mugnaio –. Prima di me questa pratica non la faceva nessuno. Per allungarsi, la pasta deve restringere la sua struttura, la sua composizione. Se io quindi non la mantengo fresca si sgretola ed è l’inizio della fine. L’allungamento, come l’impasto, deve essere uniforme, procedendo con i suoi tempi ed i suoi ritmi perché la pasta si sfalda di più quando si allunga troppo facilmente o quando all’interno c’è troppa umidità rispetto all’esterno. In questi casi si creano delle spaccature, con una parte della superficie che si secca e che, andando avanti con l’estensione, non si recupera più». Così dicendo coprì il risultato della sua prima manipolazione con un panno umido per salvaguardarne la freschezza e si dileguò. Avremmo saputo in seguito che era sceso in cantina ad organizzare gli spazi per la successiva cottura.
Dopo un po’ mastro Nicola ricomparve con parannanza d’ordinanza e un berretto la cui misura non lo convinceva molto. «O s’è rimpicciolito o s’è ingrandita la testa», pensò ad alta voce. Con lui c’era anche Marcello, il figlio più grande e primo aiutante, al suo fianco già in diverse esibizioni. Cominciò così la fase più delicata e faticosa della lavorazione, con le due estremità del cordone, ormai assottigliato, finalmente unite. Le sue mani ruvide eppure leggerissime sembravano accarezzare, modellandola, la massa sempre più filata; ed era davvero uno spettacolo assistere a quelle pastose e materiche metamorfosi in cui nessun gesto era lasciato al caso, perfezionato in decenni di esperienza. «A questo punto, poiché non è più possibile agire singolarmente sul filo di pasta, si lavora su tutta la matassa in modo che i diversi fili si facciano da parete l’uno con l’altro».
Sotto una pioggia incessante di farina passata al setaccio, con lo sfregamento sempre più veloce e il respiro affannoso, mastro Nicolino sembrava danzare attorno al tavolo; una, due, tre, quattro, tutte le volte che occorreva, perché in quegli attimi, diceva, il confine che separa il successo dalla sconfitta diventa sempre più sottile, proprio come la materia che viene sagomata. «Non si devono intersecare assolutamente altrimenti si tagliano. L’abbondante dose di farina serve a cicatrizzare in qualche modo le spaccature prodotte dall’allungamento. Verrà poi tolta e recuperata prima della cottura».
Compito, questo, assegnato a Marcello al quale chiesi se si fosse mai cimentato nella lavorazione vera e propria. «Un paio di volte – mi rispose – e con pessimi risultati. Ho intenzione comunque di riprovarci ma devo stare da solo, senza di lui». Lui era il (capo)mastro, colui che anche quella sera aveva compiuto il suo ennesimo (capo)lavoro e che, inaspettatamente, sostenne la tesi del figlio. «La prima volta che ho fatto la pasta da solo me ne sono andato in paese con gli amici. Se stavo insieme a mio padre non sarebbe uscita così buona perché, a prescindere dagli insegnamenti, col tempo ognuno sviluppa un proprio modo di lavorare, un proprio stile».
Tornando alla cottura, altra fase nondimeno importante in quanto «con una buona cottura si può migliorare una pasta mediocre, così come con una errata si può rovinare una buona pasta», bastarono due-tre minuti nella callara per essere pronta da consumare. Prendemmo quindi posto attorno al tavolo di lavoro che nel frattempo si era fatto desco, accogliendoci, e proprio sulla spianatoia usata per la lavorazione la pasta fumante venne rovesciata trovando il suo compimento, finalmente intrecciata e scarmigliata, condita con sugo abbondante e saporito di castrato e mangiata con gusto. E fu qui che mastro Nicola Di Lallo mi confidò il segreto di questa autentica bontà. «Pur raddoppiando di volume dopo aver assorbito il condimento, questa pasta è digeribilissima. La differenza con le altre, ad esempio la chitarra o lu rintrocilo che fanno a Lanciano, è che quelle sono lavorate con un attrezzo che le schiaccia mentre questa no, si allunga solo con la pressione delle mani, ottenendo di conseguenza una particolare morbidezza. E poi, questa è più buona anche per un altro motivo: perché la faccio io!».
Prima di salutarci Nicolino mi fece vedere alcuni cimeli fotografici con i vari personaggi che nel tempo avevano avuto il piacere di assaporare la sua specialità. Tra gli altri, in effetti, si riconosceva anche San Pietro, vale a dire l’attore Riccardo Garrone divenuto all’epoca tutt’uno con il personaggio che interpretava in un noto spot pubblicitario. C’era anche Marco Pantani il quale insieme al suo gregario ed ai membri della squadra, dopo aver ripulito la spianatoia, si concesse pure la scarpetta. Era il 1998, l’anno della doppietta al Giro d’Italia e al Tour de France, tanto per dire. Buon viaggio mastro Nicola, ora potrai fargliela assaggiare davvero la tua pasta a San Pietro. E sarà buonissima, come sempre.