Testo Laura de Benedictis Foto Luca Del Monaco
Il “Maria Caniglia” è il più grande dei teatri storici d’Abruzzo e lo scorso 14 dicembre ha inaugurato una nuova stagione dopo oltre due anni di restauro, restituendosi alla città di Sulmona, quale uno dei simboli della sua storia culturale.
È la sera del 4 maggio del 1933, una bellezza aristocratica e fiera regna sovrana in una città dove la storia e l’arte hanno confermato da secoli la loro supremazia. Sulmona, crocevia d’arte e cultura, patria del poeta Ovidio, romana e nobile, aristocratico principato della famiglia Borghese, dall’inizio del nuovo secolo aveva dato l’addio al regno dei Borbone , ai periodi di oppressione ad opera degli Austriaci e dei Francesi, ed era entrata in una nuova era, quella di una nazione giovane e ancora bisognosa di certezze, in cerca di una strada da percorrere e che ora si trovava nel pieno del Ventennio fascista. Si respirava ancora una sorta d’aria sacra, tra le strade e tra i palazzi affrescati s’imponeva ancora quella “noblesse oblige” cui la città non sapeva e non poteva rinunciare per una sua conformazione naturale come se tutto dovesse rimanere com’era, come se qualcuno, per dirla con Alberto Savinio, stesse a guardare e a giudicare, come se vi fosse un’arcana presenza che vietava “alla vita di diventare gioco, bassezza, frivolità” e che quasi imponesse “di camminare in punta di piedi, parlare basso, tenere l’animo in gravità e decoro”. Della futura e disastrosa guerra che sarebbe scoppiata di lì a pochi anni, in quella sera di maggio non se ne doveva ancora avere chiaramente il sentore. La città risuonava di un’atmosfera d’incanto, una Sulmona fiduciosa nel futuro si vestiva a nuovo per assistere alla prima assoluta del Teatro Comunale del Littorio.

Se ci fossimo trovati lì, mischiandoci tra la folla, avremmo di certo potuto scorgere gruppi di signore e signori eleganti farsi spazio tra il vociare dei curiosi. Ci saremmo così trovati tra gli esponenti delle più illustri famiglie della città, dai Sanità ai Capograssi, dai Mazzara ai Corvi, dai Sardi ai de Pamphilis, agli Alicandri, agli Spada, ai Salini e così via. Quella sera avrebbero accompagnato i loro passi verso l’ingresso del nuovo Teatro, le vibranti note del “Rigoletto” di Giuseppe Verdi e dell’”Andrea Chenier” di Giordano. Al segno di silenzio in sala, si sarebbero abbassate le luci ed il sipario si sarebbe aperto per la prima volta sul quel teatro fatto costruire tra il 1931 ed il ‘33 su progetto dell’ingegnere Guido Conti, autore della maggior parte delle opere pubbliche realizzate nel Ventennio sulmonese. Sembra quasi per un attimo di essere lì, a quella che dovette essere una sfavillante inaugurazione, quando la lirica non era cosa antica, quando la cultura era uno dei fiori all’occhiello della nostra regione, quando la bellezza era più importante dell’utile. Seguendo la musica apriamo lentamente gli occhi e torniamo sorprendentemente ad oggi, ma come in un itinerario all’indietro nel tempo continuiamo a viaggiare sulle note del Rigoletto. Siamo però sul finire di un 2013 ben lontano da quella prima, tanto è cambiato ma la magia di questo luogo rimane, una magia che racconta storie lontane, dietro le quinte inaspettati, teatrali colpi di scena e più in generale la storia di una città. Dopo alcuni anni di lavori di ristrutturazione, a seguito dei danni provocati dal terremoto del 2009, il Teatro ha infatti riacceso i riflettori sul palco e ha voluto farlo proprio con un nuovo allestimento del “Rigoletto”, celebrando così l’ottantesimo anniversario della sua costruzione e al tempo stesso il bicentenario della nascita di Verdi. Ma torniamo ancora per un attimo indietro negli anni, a quella sera di maggio del 1933 quando si inaugurò sotto il nome di Littorio, chiaro omaggio al regime fascista, un teatro che avrebbe visto succedersi sul suo palco alcuni tra i maggiori cantanti lirici della scena italiana e mondiale, tra i quali la celebre soprano di Pescocostanzo Maria Caniglia che proprio quella sera inaugurò la prima stagione lirica sulmonese come protagonista nell’Andrea Chenier e, alla quale si scelse poi nel 2001 di intitolare il Teatro. Un luogo simbolo della cultura della città, che ha ospitato nel corso degli anni orchestre, balletti e spettacoli di valenza internazionale soprattutto nel campo della lirica, e la cui storia è intrinsecamente legata all’amore dei cittadini per la propria città e per la cultura, tanto che già a partire dagli anni direttamente successivi alla Prima Guerra Mondiale si erano distinte ambiziose idee per la costruzione di uno spazio adeguato ad ospitare altrettanto ambiziose stagioni teatrali e liriche. Fu così che dal 1924, sotto la spinta del Barone Alessandro Sardi e di gran parte del gruppo dirigente locale del Partito Nazionale Fascista, si andò a costituire un comitato promotore di una raccolta fondi utile ad avviare la costruzione del Teatro. Un gruppo formato da centoventi benemeriti cittadini versò così la somma di 300.000 lire, la quale poté servire ad innalzare la struttura muraria su quello che era il sito dei vecchi orti di Santa Caterina, concesso a titolo gratuito dal Comune. I lavori furono affidati all’ingegner Conti, il quale prese a modello il teatro Quirino di Roma, frequentato quando egli era studente nella Capitale, ne imitò le dimensioni, le proporzioni e lo schema a ferro di cavallo, e progettò tutta l’opera ricalcando la tipologia del teatro di stampo settecentesco costituito solitamente da tre corpi: uno inferiore affacciato sull’attuale via Angelozzi e dove furono posti l’ingresso, il fumoir ed il bar; uno centrale destinato al vestibolo, alla platea, ai palchi e ai corridoi; ed infine un corpo posteriore per il palcoscenico, i camerini e i disimpegni. Possiamo immaginare con quale orgoglio la città dovette accogliere un teatro così imponente, che riscattava l’austera facciata con un interno ricco di stucchi magistralmente decorati e arredi preziosi, e che poteva vantare una capienza pari a 1200 spettatori (successivamente ridotta a 706 per adeguarsi alle nuove norme di sicurezza), una buca per l’orchestra, praticamente unica in Abruzzo, in grado di ospitare 50 elementi. Fu realizzato così un edificio di stampo neoclassico, probabilmente freddo e accademico all’esterno ma in grado di riscattarsi con un suntuoso interno, un’opera imponente di cui Sulmona fu e continua ad essere orgogliosa, tra le prime costruzioni del tempo rispondenti alle leggi antisismiche, funzionale ma anche magnificente, un gioiello di stile per una città che affonda le sue radici nella grande storia e alla quale oggi è stato restituito in tutto il suo splendore.
Quando venne costruito era nascosto allora tra le architetture di uno dei vecchi isolati del centro storico, di cui si fecero demolire molte delle case per poter adeguare lo spazio urbano al nuovo edificio. Si trattò di certo di una scelta che andò a snaturare il contesto esistente e che snaturò la stessa struttura con l’inserimento nelle vicinanze di palazzoni porticati. Eppure oggi, varcando la soglia del teatro, passando tra il vestibolo ed il fumoir si rimane ancora colpiti ed affascinati dalla bellezza delle decorazioni, ed entrando nella sala, impreziosita da ricche sete damascate, si respira l’aria della grande arte e pare d’essere trasportati lontano, abbagliati dalle luci diffuse dai piccoli lampadari in cristallo di Boemia, i cui riflessi ci incantano ed incatenano in una sorta di sogno senza tempo nel quale ci si lascia amabilmente condurre da una musica affabulatrice e irresistibile.