testo e foto di Ivan Masciovecchio.
Se non sai bere non devi amare, ma non si creda meglio chi beve; se non sai amare meglio non bere. E’ così, con questo piccolo frammento poetico tratto dal capitolo Il libro del coppiere contenuto nel volume di J.W. Goethe Il divano occidentale orientale, che il giornalista Sandro Sangiorgi ha voluto concludere la serata abruzzese organizzata dalla rivista Porthos presso il ristorante Il Palmizio di Alba Adriatica per celebrare la vocazione gastronomica di un vino complesso e straordinario come il Cerasuolo Valentini.
Una vera e propria verticale di ben sei annate – le ultime uscite in commercio, dal 2007 al 2012 – servite alla cieca in due batterie da tre assaggi ciascuna attraverso una successione né cronologica né tantomeno fondata sulle caratteristiche espressive dei vini, ma basata esclusivamente sui piatti previsti dal menu di mare elaborato in collaborazione con lo chef Valerio Di Mattia, che ha visto susseguirsi con immutato gusto prosciutto al coltello, gamberi e insalata con capperi e pomodoro secco; fracchiata con baccalà e peperone; spaghettone con alici e pecorino; pescatrice all’alloro e al pomodoro servita col suo fegato cucinato alla veneziana; pizza dolce.
Oltre alla partecipazione di Francesco Valentini – accompagnato da moglie e figlio – tra gli ospiti che hanno trasformato il piacevole convivio in un piccolo evento c’è stata da registrare senza dubbio la presenza del prof. Leonardo Seghetti, intervenuto in duplice anzi triplice veste di consulente storico culturale della cucina del Palmizio; come padre della pasta madre da cui Walter D’Ambrosio dell’azienda agricola Le Gemme ha ricavato il pane servito durante la serata (così come il vino cotto); ma soprattutto in qualità di amico – prima ancora che tecnico – della famiglia Valentini, presenza preziosa e rassicurante, una delle poche persone capaci di comprendere le problematiche dell’artigiano, secondo quanto riferito dallo stesso Francesco.
Sollecitati a più riprese dalle sue pungenti provocazioni, nel corso della serata Sandro Sangiorgi li ha chiamati più volte accanto a sé, dando vita ad un racconto plurimo e composito che ha spaziato dalla descrizione di diversi piatti tradizionali dell’Abruzzo contadino alla scoperta di alcune tecniche di lavorazione di una delle cantine mitiche dell’universo enologico nazionale, passando per la condivisione delle ansie e delle angosce che il viticultore artigiano si porta dentro durante il suo duro lavoro, prima in vigna e poi in cantina.
Il numeroso pubblico presente, formato da uno zoccolo duro di porthosiani della prima ora e da un giusto mix di appassionati ed addetti ai lavori – tra gli altri, non poteva mancare il giornalista Massimo Di Cintio, già curatore qualche anno fa della guida Rosati d’Italia (ed. Cucina&Vini); Sofia Pepe, in rappresentanza dell’omonima cantina di Torano Nuovo alla quale lo stesso Sangiorgi ha dedicato il libro Manteniamoci giovani. Vita e vino di Emidio Pepe (ed. Porthos) realizzato in occasione della cinquantesima vendemmia (leggi qui per saperne di più); Paolo Merlini e Maurizio Silvestri, autori del libro in uscita Dove comincia l’Abruzzo (ed. Exòrma), un viaggio su corriere e treni regionali alla scoperta di storie di terra e uomini, arricchito dalle immagini del fotografo Mario Dondero – ha così potuto apprendere le origini della fracchiata, una sorta di «polenta di ceci, cicerchia e piselli verdi, la vera bistecca agricola, piatto tipico del mondo contadino, ad altissimo contenuto proteico e ricco di fibra»; oppure del peperone cornetto o paesanello, «infilato ed appeso sull’uscio di casa dalle pie donne, nei mesi freddi veniva essiccato al fuoco lento del camino; tipico della zona del chietino attorno a Furci, macinato al mortaio costituiva la paprika dei poveri»; oppure ancora del baccalà, «oggi piatto considerato di lusso, una volta veniva acquistato secco insieme alle alici con i proventi della vendita del prosciutto perché durando più a lungo garantiva la sopravvivenza alimentare ed il superamento del periodo invernale».
Senza nulla togliere al prof. Seghetti, sono state comunque le parole di un Francesco Valentini particolarmente loquace a colpire profondamente al cuore, al pari dei suoi vini straordinari. «Il nostro Cerasuolo nasce dalla vinificazione in bianco di uve nere, vale a dire che è ottenuto da solo mosto fiore in assenza totale di vinacce, senza neanche un minuto di macerazione sulle bucce. Seguendo un procedimento valido anche per il Trebbiano, grazie all’utilizzo di uno sgrondatore degli anni ’50, separo l’uva pigiata – e quindi il mosto – dalle bucce le quali vengono inserite in torchi verticali dove subiscono una pressatura soffice; poi a seconda dell’annata, del tipo di uva, dello spessore della buccia e di un’infinità di altre variabili – compreso anche il mio stato d’animo del momento – decido quanto e come miscelare una parte del torchiato con il mosto, ottenendo un colore ed un certo tipo di vino che da quel momento procederà per la sua strada».
Ascoltando la filosofia produttiva della famiglia Valentini che porta alla vinificazione di solo un 25-30% delle uve di proprietà, si riesce davvero a dare senso e sostanza alla parola artigiano ed al relativo aggettivo, troppo spesso invece usati impropriamente. «La lavorazione dipende dalla materia prima a disposizione; naturalmente non tutte le annate sono all’altezza e poiché non manipolo l’uva in nessun modo, quella che non riesco ad utilizzare viene ceduta a privati o cooperative. Inoltre, pur vinificando tutti gli anni, quando non riesco ad avere il prodotto che voglio, non imbottiglio e salto l’annata. Per questo, ad esempio, faccio poco rosso, perché con i cambiamenti climatici degli ultimi anni (piogge abbondanti e caldi forti) spesso non ci sono le premesse per un buon prodotto. Variazioni che però, paradossalmente, risultano un vantaggio per la vinificazione del Cerasuolo in quanto la maturazione fenolica incompleta, oltre ad una buona gradazione alcolica, regala anche un’alta acidità, caratteristiche ottime per questo tipo di vino».
A conclusione della cena, è stata svelata la sequenza di servizio: 2011, 2010, 2012, 2008, 2009, 2007, quest’ultimo definito da Sangiorgi «un vino poetico, struggente, col quale perdere la testa. E’ interessante che venga da un’annata complicata perché a suo tempo forse non era uscito così bello; quindi i complimenti sono doppi: per averlo creato con tutte le difficoltà del caso e poi per averci creduto mettendolo in bottiglia». E qui Francesco regala l’ultima perla della serata, proprio a proposito di questo vino. «Il 2007 mi ha insegnato tantissimo, non solo dal punto di vista enologico. Mi trovai in una situazione particolare. Fu un’annata caldissima, tirava garbino tutti i giorni. Pensai che forse era il caso di far cadere l’uva dalle piante perché altrimenti con la poca acqua presente nel terreno le viti non ce l’avrebbero fatta a sopravvivere. Prima di compiere questo atto innaturale e scellerato a fine agosto tagliai un tralcio per controllare e vidi che sostanzialmente la pianta aveva anticipato il letargo, che invece normalmente avviene ai primi freddi di dicembre. Da essere perfetto qual è aveva semplicemente ridotto al minimo il proprio fabbisogno vitale, addormentandosi e donando così quel poco di alimento che c’era a disposizione a suo figlio, cioè il grappolo. In questo modo entrambi sono sopravvissuti. Questa esperienza mi ha fatto riflettere su quanto sia imperfetto e fallace l’uomo rispetto invece alla perfezione della natura».
Prima dei saluti, chiusura poetica con il brano citato in apertura e con il ricordo di papà Edoardo – nessuno più di lui magister vita e magister vite – di cui tra qualche settimana ricorrerà l’ottavo anno della scomparsa ed al quale idealmente abbiamo dedicato il nostro ultimo, intenso e colorato sorso di Cerasuolo.