Rimandato di una settimana a causa delle precipitazioni abbattutesi con inaudita violenza su tutta la regione i primi giorni di dicembre, lo scorso lunedì ha avuto luogo il Gran Galà della cultura del Vino d’Abruzzo, organizzato come di consueto dalla locale delegazione dell’Associazione Italiana Sommelier presso il Parc Hotel Villa Immacolata di Pescara.
Fitto il programma dei lavori, aperti con la presentazione del libro “Gabriele d’Annunzio e l’enogastronomia della memoria” ad opera dell’autore Enrico Di Carlo, programmata nuovamente a Pescara dopo i successi di Roma e Budapest. A seguire, la tavola rotonda “I vini a fermentazione spontanea: una tradizione alla ribalta” ovvero come portare a casa il massimo risultato con il minimo sforzo, riproponendo lo stesso tema del 2012 cambiandone sostanzialmente soltanto il titolo.
Le circa due ore di chiacchiere hanno visto alternarsi diversi interventi da parte di produttori, critici, consiglieri nazionali, presidenti e vice presidenti di consorzi, enologi, tutti moderati con la solita bravura dal giornalista Paolo Castignani. Fortunatamente non pervenuta, invece, la rappresentanza politica, se si esclude un’isolata apparizione del senatore chietino Fabrizio Di Stefano con tanto di spilletta tastevin appuntata alla giacca, apparso poco interessato alla discussione e molto più proiettato verso la successiva degustazione.
Dopo il racconto del rappresentante dell’azienda agricola Cerulli Irelli Spinozzi di Canzano, in provincia di Teramo, da tre anni convertitosi alla fermentazione spontanea utilizzando anfore di terracotta, e dell’enologo Marco Flacco il quale ha giustamente analizzato l’argomento da un punto di vista tecnico-scientifico, quello del critico della guida del Gambero Rosso Alessandro Bocchetti è risultato uno degli interventi più apprezzati, schierandosi con finta equidistanza «dalla parte dei vini buoni. La fermentazione spontanea rappresenta la storia, la maniera normale di fare il vino. Poi è arrivata l’enologia, con i direttori dei lavori. Fermo restando che i produttori in casa loro sono liberi di fare ciò che vogliono, i mezzi sono neutri, ciò che conta è il loro utilizzo. Quindi qualsiasi strada serva a far sembrare i vini figli del proprio territorio è ben accetta. In questi anni l’Abruzzo si è mosso bene – ha proseguito – intraprendendo uno studio sui vitigni autoctoni alla ricerca di una via di maggiore efficacia e semplicità, che è poi quella che cercano i mercati, evitando di trasformare il Montepulciano nel Brunello di Montalcino. Per alcuni vini come il Trebbiano d’Abruzzo la fermentazione spontanea è quasi una necessità. Per anni questo vino è stato appiattito da pratiche enologiche che lo hanno relegato a vino da grigliata di pesce sulla spiaggia. Concludo ribadendo che i vini abruzzesi devono mirare alla riconoscibilità e alla territorialità, come farlo questo non mi interessa. Sappiate che ormai il vino si vende al 90% per racconto e narrazione; realizzare vino buono non è più sufficiente, perché i vini beverini li sanno fare in tanti; questo i produttori devono metterselo ben in testa».
Per Enrico Marramiero, vice presidente del Consorzio Vini d’Abruzzo, bisogna «insistere sul binomio vino-territorio. Come consorzio non diamo assolutamente indicazioni relative alla fermentazione. Va detta però una cosa: il rispetto della natura è sacrosanto, ma il vero salto in avanti c’è stato quando abbiamo applicato la tecnologia in cantina con i nostri enologi. E’ giusto esaminare i due percorsi alla pari, con attenzione, aprendosi molto allo studio perché il vino per buona parte rimane ancora un mondo misterioso; quindi no alle barriere mentali, equilibrio, nessuna prevalenza di un sistema sull’altro e rispetto del consumatore, cercando di realizzare prodotti buoni che rappresentino il nostro territorio».
Giudizio condiviso anche da Alessandro Nicodemi, presidente del Consorzio Colline Teramane, che rilancia «Vini biologici, biodinamici, naturali non sono mode ma metodi di lavorazione. A volte è la stampa che ha bisogno di novità a montare il caso. Chi fa naturale, spontaneo o biologico non è necessariamente più avanti degli altri, né più buono o bravo a prescindere. La diversità non è di per sé un valore positivo».
In chiusura, spazio agli interventi della platea di produttori ed addetti ai lavori. Da segnalare, come l’anno passato, l’accorato racconto di Sofia Pepe e della sua storia familiare fatta di cinquant’anni di vini a fermentazione spontanea. «Non è un discorso di giusto/sbagliato o meglio/peggio; ognuno segue la propria filosofia, ma il territorio lo raccontano molto più i vini a fermentazione spontanea; rispetto tutti gli altri, ma per noi la fermentazione spontanea è la cosa più naturale di questo mondo». A lei ha replicato Nicola Dragani, presidente regionale dell’Assoenologi, ricordando molto concretamente che l’enologia è una scienza fatta di reazioni chimiche e trasformazioni, alle quali partecipano anche i lieviti, che «sono selezionati perché sviluppano anche delle sostanze che fanno male all’organismo. In Abruzzo ne sono stati isolati due: uno dal Crab su un vitigno di Pecorino e uno dall’Università di Teramo sul Montepulciano d’Abruzzo delle Colline Teramane. Per esprimere territorialità il vino ha bisogno del suo lievito specifico, non di quello naturale» ha concluso.
Colta nell’orgoglio, Sofia Pepe ha prontamente ribadito con chiarezza che i vini a fermentazione spontanea non fanno assolutamente male. «Non può passare questo messaggio! E’ la chimica che ha cambiato il modo di fare il vino, gli ha cambiato personalità; oggi il vino non racconta più niente. Sono 25 anni che lavoro gomito a gomito con mio padre, stiamo sempre lì col microscopio a seguire l’evolversi della fermentazione spontanea, a vedere quali ceppi di lieviti agiscono e tutta questa complessità la ritrovate puntualmente nelle nostre bottiglie».
A riportare tutti alla giusta tranquillità ha provveduto la saggezza di Fausto Albanesi della cantina Torre dei Beati di Loreto Aprutino. «Per come faccio il vino mi considero un artigiano. E’ vero, esistono ancora molti punti oscuri sulla fermentazione spontanea; per questo io faccio molti esperimenti. Da queste prove risulta che, quando le condizioni sono ideali, si ottengono vini a fermentazione spontanea ottimi. Purtroppo non capita spesso, anche perché le uve non sempre sono perfette e a volte la fermentazione non arriva alla fine. Comunque io trovo molta più differenza tra vini che provengono da zone e terreni diversi, con esposizioni e metodi di lavorazione difformi, piuttosto che tra vini a fermentazione spontanea ed altri realizzati con lieviti selezionati».
Nella filosofia greca antica il termine aporia indicava l’impossibilità di dare una risposta precisa ad un problema poiché ci si trovava di fronte a due soluzioni che per quanto opposte sembravano entrambe apparentemente valide (fonte Wikipedia). Non trovate sia proprio questo il caso?
Ivan Masciovecchio