Quella del 29 agosto 1248 fu per Pietro Angelerio una lunga notte. Poco prima del sorgere del sole ebbe una visione: San Giovanni Evangelista celebrava messa sulla piana antistante l’eremo ai piedi della Majella dove Pietro era ritirato in preghiera. L’Evangelista era al cospetto di Cristo, della Vergine e di San Giovanni Battista, e una colomba bianca lasciò cadere un cartiglio in cui era scritto “in questo luogo edificherai la Chiesa in onore dello Spirito Santo”. La visione folgorò Pietro, detto da Morrone perché giunto da un precedente eremitaggio proprio su quel monte. E fu cosi che il 29 agosto, giorno della Decollazione del Battista, egli iniziò la costruzione di una chiesa sui resti di un più antico romitorio nato attorno al X secolo e nel quale leggenda vuole abbia vissuto nel 1053 l’abate di Montecassino Desiderio (futuro papa Vittore III). Il nome di quel luogo fu Santo Spirito a Majella e nel 1294 quel Pietro Angelerio, nato a Sant’Angelo Limosano nel 1215, divenne Papa Celestino V. Non sappiamo se questa tradizione nata attorno alle origini dell’eremo sia vera, ma Santo Spirito esiste ancora oggi ed è un luogo fantastico per le atmosfere e per la valenza culturale
di Roberta di Renzo
Un crescendo di piccole celle e di edifici costruiti in tempi diversi che sembrano sovrapporsi l’uno all’altro arrampicandosi su per la ripida roccia, in alto verso il cielo: è così che appare al visitatore moderno l’eremo di Santo Spirito a Majella. Tra gli eremi della Majella, questo, è quello che ha subito maggiori restauri e rimaneggiamenti, dal momento della fondazione ad oggi, a tal punto da presentare testimonianze architettoniche di epoche diverse dal medioevo all’età moderna. Incastonato all’interno di una parete rocciosa a ridosso del Vallone di S. Spirito a circa 1130 metri di quota, pochi chilometri dal centro abitato di Roccamorice, l’eremo ha una storia complessa fatta di fasi di abbandono e successivo recupero, distruzioni dovuti a incendi e varie calamità e ricostruzioni più o meno immediate. Certo è che il luogo è stato da sempre testimonianza di una forte spiritualità. Il cenobio rupestre, la cui origine, legata ai monaci benedettini, potrebbe collocarsi nei secoli precedenti l’anno Mille, fu ricostruito dopo un lungo periodo di abbandono da Pietro da Morrone. Egli vi giunse intorno alla metà del XIII secolo e subito costruì un piccolo oratorio e una celletta per sé, ma le esigenze dell’accresciuta comunità lo costrinsero ad ampliare gli ambienti esistenti. L’eremo fu la culla della Congregazione Celestiniana e a capo dell’Ordine fino al 1293, quando si decise il trasferimento dello stesso nel vicino Santo Spirito del Morrone. Nel XV secolo il monastero iniziò un lento periodo di declino probabilmente dovuto alle severe condizioni climatiche del luogo e solo alla fine del XVI secolo con l’opera del monaco Pietro Santucci tornò all’antica importanza. In questo periodo, dal 1586 al 1641, in cui l’eremo fu retto dall’abate Santucci da Manfredonia, vennero effettuati importanti interventi tra cui la realizzazione del portale centrale della facciata, portale tardo-manierista che si compone di un timpano a lunetta ribassata, nella quale rimangono pochi lacerti di affresco cinquecentesco. Alla scritta incisa nell’architrave (PORTA CELI), ne corrispondeva un’altra dipinta lungo il profilo della lunetta, quasi del tutto scomparsa, con il seguente motto: HOC CREDE MENTE SOLIDA – ECCLESIA HAEC SANCTI SPIRITI AB ANGELIS CONSECRATA AEGRIS MEDICINA EST ET CHRISTI FIDELIBUS DIMITTIT PECCATA OMNIA.
Attualmente è invece scomparso il portico tardo-cinquecentesco a due fornici e un livello superiore, crollato nell’incendio del 1820. Entriamo allora nell’eremo attraverso il portale del Santucci, ci accoglie un modesto spazio caratterizzato da copertura a botte lungo la navata, mentre in corrispondenza del presbiterio, si innesta una piccola cupola. Uniche tracce del primo impianto duecentesco sono rappresentate dalla crociera a costoloni che sovrasta l’altare maggiore. Immediatamente colpisce lo sguardo del visitatore l’asimmetria degli altari tra il lato destro e il sinistro.
Il crollo del fianco sinistro della chiesa in seguito all’incendio del 1820, ha fatto in modo che lungo la parete sinistra sia rimasto un solo altare, mentre lungo la destra ve ne sono tre. Sul primo altare a destra è collocata una statua lignea di San Michele Arcangelo, popolare manifattura tardo-ottocentesca dell’intagliatore Giuseppe Di Bartolomeo di Roccamorice; il secondo, è occupato dal quadro ottocentesco di Sant’Elena, del pittore Ferdinando Palmerio da Guardiagrele (1895). Sul terzo altare troviamo una tela con San Giuseppe di Enrico Marchiani (1893). Sull’unico altare superstite della parete di sinistra, risalente al 1893, è collocato un busto ligneo dipinto di San Pietro Celestino in abiti papali, opera ottocentesca stilisticamente riconducibile alle opere del plasticatore e decoratore Gabriele Falcucci. Sull’imponente altare maggiore di fine Cinquecento, si trova la Discesa dello Spirito Santo del 1605, opera del pittore napoletano Fabrizio Santafede (Napoli 1560-1626), vivace esponente del cosiddetto “realismo devoto”. Le due porte ai lati dell’altare maggiore immettono nella sagrestia.
Da qui, una scala in pietra conduce alla “clausura”, come attesta ancora l’iscrizione sull’architrave dell’accesso, ovvero agli appartamenti dei frati. Non deve ingannare l’ampio spazio che attualmente si incontra, frutto di un recente discutibile restauro il quale ha alterato la tipologia conventuale, costituita da piccole “celle” disimpegnate da un corridoio. Sempre dalla sagrestia si accede ad un piccolo refettorio. Uscendo da questo sul corridoio ricavato da una fessura naturale della roccia, si percorrono gli ambienti un tempo di pertinenza del convento e da tempo ridotti in rudere. Le due grandi porte che si incontrano alla fine del camminamento introducono alla cosiddetta “casa del principe”. Si tratta di un’austera costruzione civile seicentesca, su due piani, voluta dal nobile napoletano Marino IV (1646-1694) di un ramo di casa Caracciolo, principe di Santo Buono, duca di Castel di Sangro e marchese di Bucchianico. Fu figlio del più famoso Ferrante Caracciolo che fu duca di Chieti, e di Chiara Loffredo, e secondo una tradizione locale avrebbe voluto ritirarsi sulla Majella per condurvi vita ascetica. Dal secondo livello della casa del principe si sale la cosiddetta “scala santa”, esempio di architettura spontanea che sfrutta un riparo naturale della roccia secondo un principio di adattamento all’ambiente tipico di tutta l’architettura eremitica majellese e di S. Spirito in particolare: l’intera scalinata è scavata nella roccia, e sul lato destro si notano incise le stazioni della “via crucis”. Giunti ad un terrazzamento, segnalato dalla statua di Sant’Antonio abate, grossolanamente intagliata nel costone roccioso, si aprono sulla sinistra i resti di un “verziere”, una sorta di serra naturale che sfruttava la protezione dovuta alla sporgenza della roccia. Sulla destra si accede invece, tramite una ripida scala in pietra, all’Oratorio della Maddalena, così denominato per la presenza al di sopra del portale di un altorilievo raffigurante appunto Maria Maddalena. L’oratorio viene attribuito agli interventi tardo-cinquecenteschi di Pietro Santucci, sebbene presenti attualmente una sistemazione settecentesca, come si osserva nelle decorazioni a stucco superstiti. Settecentesco è l’altare a mensa che si trova in questo ambiente, affrescato nel palio sovrastante con una raffigurazione della Pietà. Il dipinto, recentemente restaurato, è firmato da Domenico Gizzonio ed è datato al 1737. Dalla porta di destra si accede ad una piccola sagrestia con ricovero, mentre da quella di destra si ritorna in basso. Tra gli altri cenni storici da ricordare relativamente all’eremo vi sono l’antico privilegio del “perdono” accordato a Santo Spirito nel 1742 da papa Benedetto XIV e l’abbandono dello stesso da parte dei frati a seguito della soppressione voluta da Giuseppe Bonaparte nel 1807. Un eremo dunque da visitare per la spiritualità che ancora vi si respira, per la monumentalità che lo differenzia dagli altri eremi celestiniani e per il patrimonio naturalistico che lo circonda.