Testo Luana Cicchella Foto Francesco Scipioni
Nell’area intorno all’attuale abitato di Massa d’Albe, oltre ai resti della cittadina romana, si può ammirare la Chiesa di San Pietro, splendido esempio del romanico abruzzese. Poderoso scrigno che da secoli custodisce le tracce di una lunga storia.
Alba Fucens negli anni ’50 si ritrovò gremita di studiosi, archeologi e architetti impegnati in frenetiche operazioni di scavo, ricerca e restauro. Scopo di quelle attività era riportare alla luce il glorioso passato di uno dei luoghi più celebri d’Abruzzo. I reperti archeologici del periodo antico e le preziose testimonianze del periodo medioevale, tornati alla luce, sono oggi distribuiti in vari musei della regione e non solo. La chiesa di San Pietro fu scenario di battaglie, incontri, transiti d’illustri personaggi, vita comune ed eventi di tempi trascorsi, che segnarono importanti trasformazioni di ordine religioso, politico e sociale. Le orme del passato lontano e le tracce di quello più recente sono combinate tra loro ad animare lo spazio. L’arte antica dei colonnati e dei capitelli, il simbolismo paleocristiano dei chrismon e delle crocette nei frammenti lapidei, la forma basilicale e l’ornato romanico delle arcatelle e delle cornici, sono sapientemente incastrati e plasmano una composizione di rappresentativa eterogeneità. Entità di origine diversa si traducono in un innesto armonioso, quasi a voler eludere lo scorrere ed il mutare dei tempi. Si tratta di un monumento-palinsesto che, anche se spogliato e poi rinnovato nelle sue componenti essenziali, ha mantenuto nei secoli un grande fascino ed una straordinaria potenza evocativa, percepibili subito, ancor prima d’approssimarsi alla collinetta da cui domina i Piani Palentini. L’incanto del luogo, prima pagano poi cristiano, si coglie già lungo il cammino verso l’altura.
Sul pianoro rialzato le spoglie del tempio di Apollo (III sec. a. C.), incastrate tra le mura dell’edificio consacrato a San Pietro, vegliano silenziose su ciò che resta dell’antico e celebrato municipium. Quello che, almeno fino al III secolo d. C., era rimasto un santuario pagano, probabilmente intorno al V-VI secolo venne riadattato ad uso cristiano. Una delle fonti dove troviamo menzionata per la prima volta la Chiesa di San Pietro è la bolla del 24 febbraio 1115 con cui papa Pasquale II confermava al vescovo dei Marsi alcuni diritti, tra cui quelli sulla chiesa in questione. Dopo essere stato possedimento vescovile passò alla proprietà di un ordine monastico, forse quello dei benedettini. Fu quindi ad opera dei monaci che il monumento prese le forme tipiche dell’architettura romanica. L’aspetto della chiesa, così come oggi la vediamo, è frutto di un progetto della prima metà del XII secolo, commissionato da un certo Odorisius abas. Si tratta con ogni probabilità di quell’abate Odorisio che fu a capo del monastero di Montecassino tra il 1123 ed il 1126. A quel tempo si stabilì la ricostruzione incorporandovi i resti del tempio romano. Il sisma del 13 gennaio 1915 provocò la devastazione quasi totale della chiesa. Quarant’anni più tardi si scelse, con un attento e sapiente restauro, di recuperare l’aspetto romanico, mantenendo solo pochi degli elementi aggiunti tra il XV ed il XVI secolo. Le mura all’esterno presentano tecniche composite, in cui porzioni di conci ben squadrati sono intervallate a sezioni di pietrame misto ed altre di massi grezzi. I diversi brani della cortina, ricomposti e accostati tra loro, non stridono ma rivelano come cicatrici la complessità delle vicende costruttive. Una volta entrati il palinsesto si svela in tutto il suo splendore. Nella perfetta struttura basilicale s’insinuano i materiali di reimpiego alternati agli indizi dell’anastilosi effettuata col restauro degli anni ’50 ad opera di Raffaello Delogu. Cesare Brandi, in un articolo dall’eloquente titolo “ Uno sgomentante puzzle risolto per amore dell’arte”, pubblicato sul Corriere della Sera del 27 dicembre 1957, definì all’epoca il restauro del monumento “di gran lunga il migliore che sia stato mai condotto in Italia”. L’interno è dominato dal candore della mura e dall’elegante colonnato. Le regolari scanalature delle colonne svettano tese verso il morbido acanto dei capitelli. La sacralità celata nel simbolismo degli elementi decorativi, sia antichi che medioevali, rimanda ad un divino che trascende i mutamenti della fede. La sequenza delle imponenti colonne, che armoniosamente separano le navate, rinvia d’improvviso dal paganesimo al cristianesimo, mentre guida lenta lo sguardo del fedele verso l’abside, fulcro dell’edificio cristiano. L’abside risulta oggi un elemento decisamente più godibile all’esterno, nella ritmica sequenza degli archetti pensili con beccatelli figurati. Completamente crollata nella scossa del 1915, all’interno non conserva altro che la sua concavità. Sia fuori che dentro il chiarore dell’intonaco, alternato al grigio tenue delle pietre e al candore del marmo, fanno apparire l’edificio quasi spoglio, mentre osservando con attenzione si scopre l’evidente preziosismo di ogni sua parte. Seppure non in loco tra i pezzi più pregevoli vanno annoverate le ante lignee dell’antico portale, in cui sono decori finemente intagliati. Le ante sono oggi custodite, con alcuni oggetti del prezioso Tesoro appartenuto alla chiesa, al Museo d’Arte Sacra di Celano. Nell’aula basilicale la direttrice del colonnato, che dall’ingresso va verso l’abside, è intervallata a metà navata dallo splendido ambone e tagliata trasversalmente dall’iconostasi. Questi magnifici arredi in stile cosmatesco celebrano ed evocano con chiarezza lo splendore di cui un tempo rifulgeva lo spazio interno. Alla ricchezza di materiali e decori si aggiungeva il lusso dei preziosi oggetti del Tesoro: croci, altari, calici e reliquiari donati nei secoli ed esposti in passato solo nelle grandi occasioni. (vedi “Celano. Gioiello sacro”, n. 19 di Tesori d’Abruzzo, gennaio-marzo 2011, pp. 4-12 e “Alba Fucens. il Tesoro restituito”, n. 27 di Tesori d’Abruzzo, gennaio-marzo 2013, pp. 22-25).
GLI ARREDI SACRI
L’ambone a doppia rampa e l’iconostasi sono due capolavori dell’inizio del XIII secolo, opera rispettivamente dei maestri Giovanni e Andrea, i cui nomi sono incisi sulle candide cornici marmoree. Come riportato nelle iscrizioni si tratta di due maestri romani: “civis romanus doctissimus arte Iohannes…” e “Andreas Magister Romanus fecit…”. Le fasce di marmo bianco segnano le linee della struttura fatta di ritmica essenzialità. Sulle superfici si dispiega una ricca composizione decorativa, geometrica e simbolica. Quadrati e cerchi di marmo antico, porfido e serpentino sono disposti entro cornicette di tessere musive dorate e coloratissime, che creano scintillanti vibrazione ad ogni riflesso di luce. Farsi catturare dalla bellezza e dal fascino di queste due opere è possibile pienamente solo ammirandole dal vero.
Scriveva il Piccirilli alla fine dell’800: “Le mille combinazioni geometriche, lo sfolgoreggiare dei tasselli di vetro colorato ed indorato che contornano le formelle di porfido, di serpentino e di rosso antico, le armoniche tinte degli ornati ecc sono cose che solamente con una brillantissima tavolozza possono mostrarsi al lettore, non con una povera descrizione” (P. Piccirilli, Notizie storiche e artistiche di Alba Fucense, “Rivista abruzzese di scienze, lettere ed arti”, a. IX, maggio-giugno 1894, p. 207).