Nel quartiere di Civitanova, uno dei più suggestivi di Lanciano, luogo in cui il tempo sembra essersi fermato, si trova la chiesa di Santa Maria Maggiore, il più prestigioso monumento della città e uno dei più importanti dell’Abruzzo medievale che, all’interno, custodisce un raro capolavoro di un protagonista assoluto dell’oreficeria quattrocentesca italiana
testo di Lucia Arbace, foto di Gino di Paolo
E’ una sensazione del tutto particolare quella che si avverte entrando, da un portale laterale, nella Chiesa di Santa Maria Maggiore a Lanciano. Percorsi i vicoli stretti dell’antico quartiere di Civitanova, sviluppatosi sul colle della Selva in pieno Duecento, qui letteralmente ci si ritrova immersi in uno spazio sacrale, mistico e monumentale. Pilastri e semicolonne, che scandiscono le campate con gli archi ogivali, svettano verso l’alto e disegnano le crociere, mentre le navate laterali coperte a semibotte con archi acuti traversi evocano atmosfere transalpine. Tuttavia è la percezione dell’euritmia, segnale forte dell’applicazione da parte di maestranze locali di stilemi gotici d’oltralpe – con l’uso di un lessico propriamente borgognone tipico delle architetture cistercensi -, a contribuire a rendere l’interno ancora più attraente, nel corso di una visita in pieno silenzio, al di fuori degli orari delle liturgie.
Suscita inoltre stupore e curiosità – e dibattiti tra gli studiosi! – la soluzione dell’abside ottagona forse di federiciana memoria, entro un impianto quadrato introdotto da un arco trionfale al quale s’addossano due semicolonnine terminanti a cono rovesciato con elementi fitomorfi o antropomorfi. In occasione di successivi ampliamenti, alle spalle di questo spazio, ha trovato una degna collocazione il portale principale, quell’autentico tesoro di sculture e di fitti merletti intagliati nella pietra che è uno dei vanti della chiesa e quasi un piccolo museo all’aria aperta.
È invece custodito in una vetrina blindata l’altro gioiello qui conservato che, autentica eccezione per opere così preziose, rientra tra i pochi esemplari integri costantemente fruibili. Difatti, a parte qualche sporadico caso come l’impressionante antependium nella Cattedrale di Teramo e la croce mutila nel Museo diocesano della sua città natale, la maggior parte delle straordinarie oreficerie firmate da Nicola da Guardiagrele tra il 1418 e gli Anni Cinquanta è oggi racchiusa in casseforti di curie o in caveau di banche. Persino la stupenda croce della Cattedrale di San Massimo, esposta nel Museo Nazionale d’Abruzzo fino al giorno del terremoto, è oggi ‘invisibile’ e si dovrà aspettare almeno un anno e mezzo per rivederla in una cornice idonea, al termine dei lavori dell’ex-mattatoio a L’Aquila.
Occorre quindi venire proprio a Lanciano, operosa città d’Arti e Mercanti, se si intende apprezzare un raro capolavoro di un protagonista assoluto dell’oreficeria quattrocentesca. La croce, interamente realizzata in argento dorato e smalti con sferette in rame dorato, è orgogliosamente firmata da Nicolaus Andree de Guardia e datata 1422, come recita la scritta in caratteri minuscoli gotici inserita sotto la Vergine giacente, su due righe. Dalla parte opposta, entro il rilievo con il Cristo deposto, l’altra iscrizione rivela che l’opera era stata commissionata al tempo della cappellania dell’abate Filippo, mentre il libro aperto mostrato dall’Eterno Padre benedicente dichiara il messaggio salvifico: Ego sum lux mundi via veritas et vita (Io sono luce del mondo, via, verità e vita).
Ma a parte queste e molte altre scritte – le quali dichiarano in totale trasparenza ogni aspetto di questo manufatto prestigioso -, la croce reca con sé una singolare antologia di storie, mariane e cristologiche, restituite con assoluta libertà interpretativa utilizzando al meglio le più sofisticate tecniche: sbalzo, cesello, fusione a cera persa, bulinature e trafori per l’argento e il rame, oltre agli smalti traslucidi e champlevé. Questi ultimi entro quattro placchette esalobate definiscono gli Evangelisti, emergenti dal fondo azzurro, con cromie vivaci in parte smarrite. Su un fronte troneggia l’Eterno mentre i terminali recano l’Angelo Annunciante e la Vergine Annunciata, in basso è la Morte di Maria, in alto l’Incoronazione della Vergine. Sull’altra faccia, che dovrebbe essere la principale ma è più sobria dell’altra (si fa per dire !), il racconto esibisce il Cristo Crocifisso su una croce di rami – memore dell’iconografia cara a San Bonaventura -, limitato dalla Madonna sorretta dalle pie donne e da San Giovanni evangelista con due sacerdoti ebraici; in basso è la Deposizione, in alto la Resurrezione. Ma si badi ai dettagli di queste immagini, restituite in maniera magistrale. In pochi centimetri è condensato il pathos che accompagna gli eventi, ed emerge la sacralità dei protagonisti, paludati in vesti ricchissime e sigillati in espressioni confacenti al ruolo. Assai creative alcune soluzioni, come quei tre soldati ai piedi del Risorto, schiacciati da tanto peso, inermi e contratti sotto gli elmetti e le armature. Raffinatissimo è poi il ramage che cattura la luce sulla superficie del fondo, il rivestimento d’argento a sbalzo della croce che ricopre l’anima in legno di rovere. Nel nodo sono ricavati gli abitacoli per altri sei apostoli, minuscole statuette a tutto tondo anch’esse ispirate da impareggiabile dignità e carattere. Che dire? Se non fosse così platealmente espressa la paternità dell’artista – da parte di quel Nicola autentico genio, nato a Guardiagrele ‘città libera’ e quindi in seno alla più tenace e orgogliosa comunità della Majella -, questo e altri capolavori assoluti sarebbero stati assorbiti senza troppi problemi nel catalogo di qualche centro di produzione d’oltralpe. Come del resto rischia di avvenire per altre opere non firmate, da parte di chi non considera gli intensi scambi commerciali e culturali nell’intensa e vivace stagione dell’ultimo Medioevo. Senza questa e altre firme dichiarate, l’Abruzzo avrebbe rischiato di perdere per sempre la produzione di uno dei suoi figli migliori e più devoti, di certo un grande maestro, oggi totalmente da riscoprire e da valorizzare, magari con una nuova iniziativa.