La vicenda umana di uno dei santi abruzzesi più conosciuti profuma di divino dall’inizio: quando la mattina del 25 maggio 1550 Camilla De Compellis diede alla luce Camillo in una stalla, il padre Giovanni si mise a saltare dalla gioia per un evento ai limiti dell’eccezionale, visto che sua moglie aveva già sessant’anni. Non a caso, tutta Bucchianico prese a chiamarla Sant’Elisabetta
di Piergiorgio Greco
Muscoli e intelligenza, ragione e cuore, lavoro – tanto duro e silenzioso lavoro – impregnato di fede semplice e speranza certa. E ancora: terra natia e mondo, campagna e città, la sconosciuta Bucchianico e la Roma “caput mundi”.
Il tutto condito da un gusto per la bellezza possibile solo a chi ha il privilegio di aspirare alla grandezza del mare Adriatico nella certezza che, appena voltato lo sguardo, c’è immancabile il dolce abbraccio della Maiella madre. Ecco perché non è esagerato pensare a San Camillo de Lellis come ad un esempio di “abruzzese tipico”, una persona cioè capace di riassumere in sé i tratti più veri e le esperienze più profonde di una terra che dà proprio tutto a chi non si tira indietro di fronte alla sfida di diventare uomini veri. Una figura che, proprio in forza delle sue possenti radici, ha vissuto pienamente la sua vita, fino a lasciare un segno indelebile nei luoghi naturalmente deputati a trattare il dolore come gli ospedali, le case di cura, gli ospizi: se ancora oggi tra la fredda scienza di un medico e la rude povertà di un malato si incunea l’amore e la professionalità di un infermiere, lo si deve proprio al fondatore dell’assistenza infermieristica moderna, venerato non solo nella sua Bucchianico ma anche a Roma, sede dell’Ordine da lui fondato, e in tutto il mondo.
La vicenda umana di uno dei santi abruzzesi più conosciuti profuma di divino dall’inizio: quando la mattina del 25 maggio 1550 Camilla De Compellis diede alla luce Camillo in una stalla, il padre Giovanni si mise a saltare dalla gioia per un evento ai limiti dell’eccezionale, visto che sua moglie aveva già sessant’anni. Non a caso, tutta Bucchianico prese a chiamarla Sant’Elisabetta. Persa la madre da giovanissimo, Camillo decise di seguire le orme del padre, capitano di ventura al servizio dei D’Avalos che morì nel 1570. Sin dalla sua adolescenza, oltre al suo carattere litigioso e fannullone, Camillo manifestò la dipendenza per la droga del tempo, il gioco, tanto da tenere nascoste le carte sotto il cuscino.
Risale a questo periodo anche la comparsa di una misteriosa piaga alla caviglia destra, per curare la quale il giovane fece ricorso all’ospedale San Giacomo degli Incurabili a Roma. Qui restò per un periodo come inserviente, fino a quando non venne allontanato a causa delle continue fughe notturne per andare a giocare con i barcaioli sulle rive del Tevere.
Ripresa la vita militare, le circostanze lo portarono a Manfredonia, in Puglia. Preso come manovale dal convento dei francescani, il 2 febbraio 1575 avvenne l’incontro che rivoluzionò la sua vita. Recatosi a San Giovanni Rotondo per una commissione, quel giovane sfiduciato rimase “folgorato” dalle parole di padre Angelo, il frate guardiano del convento: “Dio è tutto… Salvar l’anima che non muore, è l’unico impegno per chi vive una vita breve e sospesa come quella dell’uomo sulla terra”.
Dopo tanto vagabondare, Camillo aveva trovato Chi cercava: Gesù, la presenza alla quale si sarebbe legato indissolubilmente. Immediata e spontanea fu la richiesta di entrare nei francescani, ma la ferita alla caviglia lo riportò al San Giacomo a Roma, dove una notte del 1582, mentre vegliava gli ammalati, quel ragazzo esuberante avvertì il desiderio di “instituire una Compagnia d’huomini pij et da bene che non per mercede ma volontariamente e per Amor d’Iddio servissero gli ammalati con quella charità et amorevolezza che sogliono far le madri verso i loro proprj figliuoli infermi”. La Compagnia dei Servi degli Infermi, contraddistinta dalla croce rossa sul petto, fu elevata ad Ordine dei Chierici Regolari Ministri degli Infermi da Gregorio XIV nel 1591. Nel 1584, Camillo fu ordinato sacerdote e due anni più tardi, la prima comunità camilliana si trasferì dal San Giacomo al convento della Maddalena, iniziando l’attività sanitaria all’ospedale Santo Spirito di Sassia. Dopo il riconoscimento pontificio, Camillo diede vita ad una riforma della sanità, addestrando nuove leve di infermieri all’insegna della carità, e mettendo nero su bianco un codice di assistenza che presto si diffuse in tutta Italia, dove si moltiplicavano le fondazioni di camilliani. Tre anni più tardi, spossato dai suoi mille malanni, lasciò la direzione dell’ordine ma continuò a servire i malati fino alla morte, che lo colse il 14 luglio 1614 nel convento della Maddalena, dove fu tumulato. Quando lo proclamò santo nel 1746, papa Benedetto XIV affermò che Camillo de Lellis è stato iniziatore di “una nuova scuola di carità”. Altri pontefici ribadiranno questa esemplarità: Leone XIII lo dichiarerà Patrono degli ospedali e dei malati (1886), Pio XI Patrono degli infermieri (1930); Paolo VI Patrono d’Abruzzo con San Gabriele dell’Addolorata (1964) e Protettore della sanità militare italiana (1974). Per superare la tentazione di imbattersi in due distinti Camillo De Lellis – da un lato il giovane pieno di vizi e dissoluto, dall’altro il convertito, il santo – possono tornare utili le parole del grande educatore del secolo scorso, don Luigi Giussani: “Il santo non è un superuomo, il santo è un uomo vero perché aderisce a Dio e quindi all’ideale per cui è stato costruito il suo cuore”. E infatti, una lettura attenta della vicenda di San Camillo non può che portare a questa conclusione: la conversione non azzerò ciò che “il soldato di ventura abruzzese” era sempre stato, vale a dire un uomo testardo, irruento, rozzo (“Huomo idiota e senza lettere” diceva di lui San Filippo Neri, suo padre spirituale), per certi versi sognatore, dal grande intuito, capace di adattarsi alle situazioni più disparate, un uomo a volte romantico. Tutta questa “abruzzesità”, certamente purificata dagli eccessi giovanili, fu semplicemente trasformata dall’incontro con Gesù e incanalata verso una diversa utilità: il servizio a quei malati che Camillo aveva conosciuto al San Giacomo, le cui pietose condizioni igieniche e sanitarie avevano toccato la sua sensibilità. Dietro il santo Camillo de Lellis, insomma, c’è un abruzzese verace. È quanto emerge in numerose pagine dei suoi biografi. A conversione avvenuta, ad esempio, Camillo non perse affatto la sua naturale irruenza. Racconta Sanzio Cicatelli che al prefetto dell’annona che gli aveva negato del grano durante una cruenta carestia, “il santo rispose con voce terribile: Monsignore illustrissimo, se per questo mancamento i miei poveri patiranno o moriranno di fame, me ne protesto davanti a Dio e vi cito al suo tribunale, dove avrete a rendere strettissimo conto”. E che dire della sua testardaggine? Scrive sempre Cicatelli: “…il Cardinal Salviati Protettore andò a rinuntiare la Protettione al Pontefice dicendo che non voleva avere più a che fare con quella testa ferrata di Camillo”. Più affascinante ancora il discorso sulla praticità e la concretezza del santo, altre due attitudini che mise a completo servizio dei malati dopo la conversione.
Al riguardo, si può dire che il fondatore dei Ministri degli infermi rivoluzionò la sanità non solo per averla “impregnata” di carità (“Desidero e voglio morire ripetendo: Carità! Carità! Altro non so fare; altro non so dire”), ma anche per quelle geniali innovazioni che resistono ai giorni nostri, dettate proprio dalla capacità di risolvere i problemi velocemente e efficacemente: dal cambio delle lenzuola senza spostare il malato dal letto alla “consegna” alla fine del turno, dal letto unico per ogni degente all’aerazione e all’illuminazione delle corsie, dal campanello per chiamare gli infermieri alla barella, dalle rudimentali ambulanze ad una sana gestione economica degli ospedali, dal coinvolgimento dei volontari laici nell’assistenza fino alla organizzazione di “task force” durante le emergenze, tutto parla di un uomo ricco d’ingegno. Insomma, è evidente che non si riuscirebbe a comprendere in profondità la vicenda di Camillo de Lellis se non si riconoscesse che conversione e “abruzzesità” sono due facce di un’unica medaglia. La “cartina di tornasole” di tutto questo è la decisione presa dal santo il 20 novembre 1604: il via libera alla fondazione di una comunità di Ministri degli Infermi anche nella sua Bucchianico dove, pur non essendoci un ospedale da servire, la povertà e la sofferenza erano le cifre del quotidiano. Dopo una vita spesa a servizio dei malati di tutta Italia, il santo si riconobbe in qualche modo debitore di questa sua opera anche alla sua terra. Senza questa decisione, a ben vedere, tutta la vicenda di Camillo potrebbe apparire “monca”, un eroismo senza radici, quasi irriconoscente verso le origini. E invece ben si comprendono le lacrime dei compaesani alle ultime parole di Camillo, pronunciate nella chiesa di Sant’Onofrio nel 1612 dopo che il santo aveva seguito personalmente i lavori per l’edificazione del convento e, più in là, nonostante la malattia, si era dato da fare per aiutare il suo paese in una terribile carestia: “Questa è l’ultima volta che io predico à questa Terra, e non mi rivedrete più, perché sono vecchio, me ne vado à morire à Roma”. Due anni più tardi, nel convento della Maddalena, un uomo vero smise di respirare, nel momento in cui un grande santo metteva piede in Paradiso.