Testo di Stefano de Pamphilis
Viaggio alla riscoperta di un artista a tutto tondo, dove immagini e poesia dialogano. Sullo sfondo, un Abruzzo mai dimenticato, terra di sogni, di angosce e tormenti, terra da cui scappare ma anche unico porto sicuro in cui approdare.
La terra natia non è solo un luogo ma un destino che segna per tutta la vita i suoi figli. Un rifugio sempre pronto ad accogliere, un pensiero che riscalda il cuore, un buen retiro dove trovare intime ispirazioni, nello stesso tempo un molo da cui partire verso nuovi mari ma pur sempre la foce di un fiume pronta ad accogliere con le sue pacate acque. E questo è anche il nostro caso, l’Abruzzo e Pescara in particolar modo rispecchiano metaforicamente questo quadro: se dovessimo provare ad immaginare un voce di questo coro, un pennello di questa tavolozza di colori, una nota di questa melodia, un ambasciatore di questo sentimento, probabilmente lo vorremmo protetto dal santo dei naviganti durante il viaggio sul nostro fiume.
Andrea d’Aterno, questo è lo pseudonimo scelto dalla poliedrica ed emblematica figura di Arturo Fornaro. Pescarese di nascita (14 dicembre 1920) e svizzero d’adozione, cittadino del mondo con il cuore piantato in Abruzzo, con radici profonde che già dal 1949, anno della sua partenza verso la Svizzera, emigrazione inevitabile in cerca di migliori condizioni di vita, segneranno la sua produzione artistica e letteraria. Pittore, poeta e musicista la cui opera fu apprezzata, sopratutto al di fuori dei confini nazionali, e riconosciuta attraverso premi letterari, tra cui il Primo Premio nazionale di Poesia “Città di Firenze” (1956) e il Primo Premio internazionale di Poesia “Città di Gela” (1957), ed esposizioni pittoriche internazionali in molte città d’Europa e d’America (Losanna, Berna, Friburgo, Colonia, Parigi, Londra e New York) con la commissione di “murales” a Londra e Zurigo. Arturo Fornaro si fonda perciò con Andrea d’Aterno per testimoniare due e più anime artistiche in un unico corpo. Sedici raccolte poetiche in cinquant’anni di attività in cui, come scrive Jean-Jaques Marchand, “Il discorso si stacca dall’apparente realismo, dal presunto autobiografismo per diventare canto dell’umanità offesa, sofferente ma non sconfitta”. È in questo canto allora che i fatti, le memorie ed i luoghi, come anche la terra d’origine, diventano simbolo, sentimento e geometria, delle percezioni dell’artista non solo attraverso la modulazione delle parole ma anche tramite quella delle immagini e dei colori: “l’esile malinconia che ritroviamo nei paesaggi ameni di d’Aterno, ci fa sentire la nostalgia di tale universo puro, intatto.
Egli offre all’uomo di oggi un mezzo per ritrovarsi nella sua integrità pur vivendo in un universo razionale” ( Alexander Gosztonyi, sull’opera pittorica di Arturo Fornaro). In poesia allora, anche dei semplici frutti come le arance si fanno metafora di esperienze, come il lavoro prima della sua partenza per la Svizzera all’interno del liquorificio pescarese dove si produceva l’AURUM (di cui le arance sono uno degli ingredienti principali), e del distacco, come la malinconia profonda per un’immaginaria sorella che emigrata in Sicilia raccoglie con le sue mani nei campi questo frutto e toccandolo lo fa diventare simbolo. Così infatti, nella poesia Timbravo arance(1971), il poeta vive l’annullamento delle distanze fisiche e mentali:
…Cara sorella, /le bancarelle – qui – /sono piene di lettere tue. /E le ho già lette tutte./Domani /tornerò alla stazione.
Arturo Fornaro esprime perciò attraverso i suoi versi una sorta di mito delle origini che si fa disincanto e straniamento nei confronti del moderno. Le tematiche care al poeta sono dunque quelle riconducibili ad un passato personale che vive quotidianamente nel suo presente, nel ricordo degli affetti abbandonati, dell’emigrazione e dell’emarginazione sociale, di una patria come l’Italia:
Affaticata di guerre e di sole / fra le tue pietre dalle idee antiche / Italia solo il pianto sa chi sei…
Così l’individualità diventa esperienza collettiva ed il tentativo di ribaltamento delle regole della lirica di impostazione romantica, fondata sulla centralità dell’io e sull’assolutismo dell’esperienza soggettiva, colloca la produzione artistica di Fornaro tra quella dei poeti della cosiddetta “terza generazione”, i quali vivono una sorta di nevrosi della fine, la quale può essere appunto sconfitta solo dal mito delle origini.
E le origini in Fornaro – d’Aterno vivono come ricordo della terra natia che si fa allegoria della pietra, elemento primordiale, simbolo di vita perenne, “canto del canto che non muore mai,” senza storia ma in realtà storia stessa del mondo, che solo il poeta può plasmare perché “per smuovere la pietra bisogna sognarla”. E infatti il poeta scrive: “Io presi dal mare / la mia prima pietra”, quella stessa pietra che, come radice più pura e sincera, condurrà l’artista a tornare nella sua amata Pescara durante gli ultimi mesi della sua esistenza nell’anno duemila, per riconsegnarsi al mare dopo una vita fatta di sogno.
Abruzzo
La mia/è una terra assonnata/in un vestito di pietre per la luna
Soldato/che hai ricevuto l’ordine di riposarti/con l’uniforme addosso/in una valigia di autunni insepolti/è la mia terra.
Un sogno/che non andrà mai da nessuna parte/è la mia terra.
Pietra su pietra,/sacerdote educato al silenzio/a stento accenna/dalle sue scalinate d’agonia/un saluto di ulivi.
E aspetta.
La mia terra/ereditò uno zufolo nascendo/dalla sua stirpe di pietra,/per l’ascolto della solitudine.
Per poter far parte della vita/già in quel mio dicembre/si toglieva qualche straccio/da consegnare ai figli/che andavano lontano.
Era di moda l’America/quando io nacqui.
L’America/ con le sue costellazioni di fortune/da convincere col tuono/e fiumi da smontare con le mani.
Preparò subito uno straccio/anche per me/la mia terra,/da regalarmi a vent’anni.